3 domenica di quaresima

lo schiavo non resta per sempre nella casa; il figlio vi resta per sempre

— C’era una volta…. — Un re! — diranno subito i miei piccoli lettori. 
— No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno.
Non so quanti di voi hanno letto dall’inizio alla fine il libro Pinocchio o almeno hanno visto il film. Spero che tutti conosciate almeno per sommi capi la favola di questo burattino e dei suoi compagni di avventura: Geppetto, il grillo parlante, Mangiafuoco, il gatto e la volpe, la fatina, Lucignolo, il pescecane…
La favola di un burattino che ama e insegue la sua libertà e nel cercarla rischia di perdere più volte perfino la vita. Una storia di libertà e di bugie; una storia di buoni propositi e illusioni; di promesse e di delusioni; di progetti e di inganni; di buone intenzioni e di pessimi risultati. Il paese dei balocchi, il campo dei miracoli, il teatro dei burattini… dietro ogni angolo c’è l’occasione – che Pinocchio regolarmente coglie – di fare la cosa sbagliata con una leggerezza che diventa irritante che, capitolo dopo capitolo, accresce l’antipatia verso questo burattino presuntuoso sempre pronto a scaricare su altri la responsabilità di quanto gli accade. Basta sempre un niente per distoglierlo dai suoi buoni propositi: un incontro, una musica, un invito, una distrazione…
C’era una volta un pezzo di legno che oggi mi pare possa aiutarci a comprendere questo vangelo così complicato.
Come non ritrovare infatti una profonda sintonia tra le parole di Gesù e questa favola di Collodi. Nei panni di Pinocchio, possiamo certo ben immaginare questi Giudei che discutono con Gesù, così gelosi della loro libertà, così sicuri della loro verità, così offesi e innervositi dalla parola di Gesù che la memoria torna al capitolo IV e al martello che Pinocchio scaglia contro il Grillo parlante che lo aveva messo in guardia: “Guai a quei ragazzi che si ribellano ai loro genitori e che abbandonano capricciosamente la casa paterna. Non avranno mai bene in questo mondo; e prima o poi dovranno pentirsene amaramente.
«Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». Gli risposero: «Noi siamo discendenti di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi dire: “Diventerete liberi”?».Voi cercate di uccidermi perché la mia parola non trova accoglienza in voi. I richiami sono molti.
La storia di Pinocchio, come questo racconto evangelico, mette a nudo le nostre debolezze, le nostre finzioni, le nostre piccole e grandi bugie con cui cerchiamo di ritagliarci e aggiustarci scelte e regole su misura non del bene, ma del comodo. 
Ci mettono di fronte alle severe parole di Gesù: «Se foste figli di Abramo, fareste le opere di Abramo. 
Ci mettono di fronte alla facile tentazione delle delega, del credere alla promessa facile, dell’illusione che qualcuno ci tirerà fuori dai guai e nel frattempo noi proveremo ad arrangiarci in qualche maniera, meglio ancora se furba e scaltra, in attesa di quel qualcuno. La tentazione di un salvatore che allontani ogni pericolo e ogni nemico, che ci esenti da ogni fatica e da ogni impegno, da ogni sacrificio e da ogni responsabilità, che decida per noi in modo da poter poi avere qualcuno da incolpare se le cose vanno male… Che ci permetta di fare la parte della vittima e di trovare sempre un nemico con cui prendercela…
Uno dei primi guai che Pinocchio combina è di vendere l’abbecedario, il libro delle parole.
Non potete dare ascolto alla mia parola. Voi non ascoltate.
Per due volte i Giudei vengono ripresi con queste parole.
Pinocchio è uno che non ascolta. E quando ascolta, poi fa quello che vuole. Oppure peggio, ascolta e si fida delle persone sbagliate. Regole, paletti, limiti e confini non gli vanno a genio. Regolarmente anche se inconsapevolmente li abbatte, cacciandosi continuamente nei guai e creando danni. Il suo pentimento dura sempre troppo poco.
L’uomo, noi, corriamo questo stesso rischio da cui Gesù mette in guardia: Se uno osserva la mia parola… Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi».
Pinocchio è una fiaba, scritta forse anche un po’ di malavoglia da Carlo Lorenzini, che preferisce però rimanere nell’ombra e firmarsi “Collodi”; scritta per un giornale di bambini, a puntate irregolari e interrotto due volte, ma è la nostra storia; è la storia dell’avventura di diventare e rimanere uomini. Travestita da fiaba c’è quel segreto tanto difficile da digerire per i giudei di allora come ci dice il Vangelo e per tutti i bambini del mondo e per il bambino che rimane in noi: la libertà è impegnativa e ha bisogno ogni volta di essere guidata.
«Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi».Nella storia di Pinocchio c’è sempre una voce che in ogni guaio lo guida, quando si decide ad ascoltarla diventa un bambino in carne e ossa.  C’è sempre anche nella nostra storia una Parola del Signore che ci guida e rischiara il cammino. Occorre ascoltarla e rimanere in quella Parola. Bellissimo questo rimanere. Il Signore sa che non sempre ci viene facile metterla in pratica, come non è stata facile per Pinocchio. Ci dice rimanete voi nella Parola. È qualcosa di diverso dal tienila dentro: dentro ci sono tante altre voci che ci confondono. Stai tu nella Parola, stacci dentro e imparerai la verità e conoscerai la libertà.

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2 domenica di quaresima

se tu conoscessi…

Seconda domenica. Domenica della samaritana. È questa donna che oggi Gesù incontra quando arriva al pozzo di Sicar. A lei Gesù si rivolge manifestando quasi in maniera sfacciata il suo bisogno: «Dammi da bere». I due non si erano mai incontrati e forse mai più si incontreranno. Viene spontaneo dire che quindi non si conoscano.
In realtà leggendo il racconto è possibile dire che qualcosa sanno l’uno dell’altro.
La samaritana conosce qualcosa di Gesù, ma è qualcosa di poco personale e di molto superficiale. Tu sei un Giudeo. Sei un uomo. Hai sete. Non dovresti chiedere da bere a me perché sono samaritana e i giudei e i samaritani non vanno d’accordo.
I Giudei, infatti, non hanno rapporti con i Samaritani: Giovanni si premura di spiegarcelo. Un’antipatia e un risentimento antico li divide. Alcuni dei motivi li ritroviamo qualche versetto dopo quando la samaritana dice: I nostri padri hanno adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare. Altri li ritroviamo nella risposta di Gesù: Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Motivi religiosi, politici, culturali!
La samaritana fa quasi capire che Gesù non dovrebbe neppure rivolgerle parola!
Poco sa la samaritana di Gesù. Lui glielo fa notare dicendole: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva».Nelle poche parole di Gesù che Giovanni ci riporta c’è evidentemente molto altro: non hai proprio capito con chi stai parlando; perché se sapessi davvero chi sono allora avresti capito che il mio bisogno di dissetarmi, non è nulla in confronto al tuo bisogno, che non è solo quello di non dover più far la fatica di andare avanti e indietro da un pozzo per attingere la quotidiana provvista d’acqua necessaria alla vita. Se tu sapessi davvero chi sono, non mi chiederesti semplicemente dell’acqua.  Ma ancora non sai chi sono. 
Anche Giovanni Battista un giorno vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!  Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”.  Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele».
Io non lo conoscevo! Se tu conoscessi…
Il bello è che in questo dialogo tra due sconosciuti, emerge che Gesù sa molte più cose della donna a cui aveva chiesto da bere. Sa che è una samaritana. Sa che ha avuto cinque mariti. Sa che ha una brocca, che è capace di attingere acqua al pozzo, che quindi gli può dare quell’aiuto chiesto.
Una conoscenza che inizialmente stupisce la donna e che fa capire a lei qualcosa di più di Gesù: «Signore, vedo che tu sei un profeta! Una conoscenza che pian piano cresce:  La donna intanto lasciò la sua anfora, andò in città e disse alla gente: «Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?».
Non è più solo un giudeo, come lo aveva definito all’inizio, non è più solo un profeta; il sospetto ora è che quell’uomo si proprio il Cristo, il Messia che quando verrà ci annuncerà ogni cosa.
Conoscere Dio e sapersi conosciuti.
Questa è la fede, la nostra fede che a volte vacilla o si raffredda semplicemente perché abbiamo la presunzione di aver già conosciuto abbastanza Gesù, di sapere già tutto quello che serve.
Come possono intere generazioni di uomini e donne cresciuti nei cortili dell’oratorio e all’ombra del campanile essersi ora così facilmente allontanati? Cosa è mancato, cosa manca? Forse manca proprio la necessaria consapevolezza di non aver ancora conosciuto abbastanza per lasciar perdere.
Io credo sia proprio dalle parole di Gesù che dovremmo ripartire: se tu conoscessi…
Il finale del racconto mi sembra significativo. Molti Samaritani di quella città credettero in lui per la parola della donna, che testimoniava: «Mi ha detto tutto quello che ho fatto». 
Molti di più credettero perché chiesero a Gesù di fermarsi con loro e dopo averlo ascoltato direttamente dicevano alla donna: «Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo».
Non ci accontentiamo di quel che abbiamo sentito tanti anni fa a catechismo.
Siamo andati a cercarlo di persona, lo abbiamo ascoltato e abbiamo creduto!

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1 domenica di Quaresima

Il tentatore gli si avvicinò

Poter vivere una quaresima è un dono di grazia.  Non è certamente una passeggiata, chiede e occorre un grande impegno. Non è una formalità, chiede e occorre tanta sincerità e insieme umiltà. Non è un obbligo; chiede e occorre il cuore. Occorre costanza: 40 giorni sono tanti. Occorre anche regolarità: bisognerà far attenzione a trovare il passo giusto per evitare di fare propostiti che non riusciamo poi a mantenere o al contrario di non farne neppure uno e di navigare a vista, senza un programma, senza qualche punto fermo. Ricordo un principio che suggerivano al tempo del Seminario.
È il tempo in cui cominciare a fare quello che si dovrebbe fare e non si fa.
Di fare bene quello che semplicemente si fa per fare.
Fare meglio quello che pure si fa già bene.
Un principio di progressione che ha una sua sapienza e che permette a tutti di camminare al passo giusto.
I vangeli con un piccolo sforzo di memoria li conosciamo, si può dire che son sempre quelli, ma siam noi diversi dall’ultima volta che li abbiamo ascoltati e questo ci permette di tornare a sentirli come nuovi.
Il primo è quello che abbiamo appena ascoltato. Il racconto delle tentazioni di Gesù.
Il Signore Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò.
Non è di poco conto notare che tra le parole che Gesù consegnerà ai propri discepoli di ogni tempo ci stanno anche queste: non ci abbandonare alla tentazione/non ci indurre in tentazione. Non è cosa da poco pensare che proprio dopo averla conosciuta in prima persona, Gesù suggerisca ai suoi discepoli di invocare l’aiuto del Padre per evitare di entrare e di cadere. Il tentatore si mostra infatti abile e affrontarlo non è mai facile. La sfida che lancia passa attraverso una piccola congiunzione che ritroveremo altre volte anche nelle altre domeniche e che già oggi in questo vangelo troviamo due volte esattamente sulla bocca del tentatore: SE.
Due semplici lettere che diventano una congiunzione, per l’esattezza una congiunzione condizionale, ovvero che presenta delle condizioni o delle conseguenze. Se tu fai questo, allora accade questo.
Oggi la ritroviamo tre volte e ogni volta è sulla bocca di colui che è chiamato prima il diavolo e poi il tentatore. «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane»
«Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; »
Infine, l’ultima «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai».
Il diavolo è colui che divide: quello che quando ti vede in un momento di difficoltà o di debolezza arriva a farti credere di poterti aiutare subito e senza che tu debba fare molto; è quello che quando vede dentro di te un’indecisione ci si infila per farti prendere la decisione sbagliata, dopo averla travestita elegantemente. 
Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane» Davvero elegante come soluzione, affascinante. Cosa c’è di male?
Il tentatore è colui che tenta, fa tentativi, ci prova. Il primo tentativo fallisce, il secondo anche, prova di nuovo con il terzo e solo a quel punto si arrende.
Gesù non abbocca a quel SE, non ci sta a cedere alle condizioni del diavolo.
Non si domanda solo: cosa c’è di male, ma si domanda: dove è il bene? 
Non si domanda solo: Quali sono le conseguenze? 
Quando nel cuore sentiamo affiorare la domanda retorica: “che male c’è?” è il momento di stare in guarda.
San Paolo nella lettera ai Corinzi: «Tutto mi è lecito!». Ma non tutto giova. «Tutto mi è lecito!». Ma io non mi lascerò dominare da nulla.
Anche con noi – lo ha fatto con Gesù! – in questo tempo di quaresima il tentatore ci proverà, ci metterà alla prova, tenterà di distrarci, di farci inciampare, ci farà promesse.
Lo farà con i suoi se e i suoi ma… suggerendoci modi di fare e di essere diversi da quelli proposti dal vangelo, ogni volta promettendo e lasciandoci immaginare vantaggi più grandi.
Non siamo obbligati ad ascoltarlo. Lui ci proverà, ma starà a noi scegliere. A dire, come Gesù: vattene! A non stancarci prima di lui. Perché sia lui ad andarsene e non noi a perdere la strada.

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Ultima dopo l’Epifania

Abbi pietà di me.

La parabola che ci è donata in questa ultima domenica dopo l’Epifania, prima che si apra il tempo di Quaresima, oso definirla divisiva. Letteralmente; divide, crea divisioni e contrapposizioni: chi sta da una parte e chi sta dall’altra. Fin dall’inizio.
Il Signore Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri. 
E subito qualcuno potrebbe riconoscersi in questa definizione: riconoscere di essere uno che fatica ad ammettere i propri errori, che ritiene di essere tutto sommato una brava persona, soprattutto se paragonata con gli altri; qualcuno potrebbe anche riconoscere la propria propensione alla facile critica, di non essere uno che le manda a dire, che facilmente fa confronti e che magari qualche volta arriva anche a sentimenti di disprezzo.
Qualcun altro potrebbe invece non riconoscersi in questa descrizione e ritenere che questa parabola non sia rivolta a lui. Potrebbe anzi ritenere di essere troppo spesso lui la persona sempre giudicata, umiliata e presa di mira.
È divisiva la situazione descritta poi dalla parabola stessa: Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Uno stava in piedi, fiero, pieno di parole e a suo dire anche di buone azioni da esibire. Ritiene di aver maturato meriti sufficienti per parlare con Dio faccia a faccia, anche se di lui si dice che pregava tra sé e sé piuttosto che guardare Dio, guarda con disprezzo al pubblicano, conveniente metro di misura per accreditare se stesso davanti a Dio; un monumento rappresentante il bravo cittadino e buon credente a cui Dio può solo rivolgere uno sguardo compiaciuto e a cui il mondo deve ammirazione e gratitudine.
L’altro, rimasto a distanza, possiamo immaginare forse anche sul fondo del tempio, accanto alle porte di ingresso, povero di parole e di risultati, carico di sconfitte e amarezza: non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, figurarsi innalzare preghiere! La persona giusta a cui dar contro e contro cui protestare, professionista dell’inganno e della truffa; termine di paragone utile a chi vuol sentirsi migliore.
Due modi diversi non solo di pregare, ma di vivere.
Divisivo il giudizio che ciascuno di noi può dare sulle loro vite.
Qualcuno potrebbe ben dire: ce ne fossero di persone come questo fariseo. Il mondo andrebbe meglio e non avremmo paura ad andare in giro per poi attaccare con la seconda strofa: i peccatori, quelli che sbagliano vanno condannati e puniti. 
Il ritornello lo prendiamo direttamente dal fariseo: O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano.
Qualcuno potrebbe invece sentir fastidio dalla superbia del primo, da quella sua supponenza che solitamente genera antipatia, e commosso dall’umiltà del secondo, dalla sua semplicità che solitamente genera tenerezza e confidenza.
Io credo che per evitare ogni contrapposizione e impoverente divisione, l’unica parte da cui mettersi è quella di Dio. Chiedere alla parabola di farci vedere come Dio guarda a questi uomini e domandarci come vogliamo essere visti da Dio.
E se ci mettiamo dalla parte di Dio ci accorgiamo subito della differenza tra la preghiera del primo, fatta di parole, e la preghiera del secondo, fatta di gesti: fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto.
Mi piace pensare che quel battersi il petto sia come un bussare alla porta del cuore, nel desiderio di rientrarci e trovarvi Dio. Si dice così del figlio prodigo: rientrò in se stesso.
Battersi il petto per chiedere a Dio di riaprirlo, di farci entrare, di rimetterci in contatto con la porzione più vera di noi stessi; per riguadagnare fiducia e stima non attraverso i nostri meriti, ma attraverso l’amore di Dio. 
Per presentarsi, dopo aver bussato a quella porta, si presenta con questo nome: sono un peccatore, ti chiedo di aprirmi. Sono quello che fino ad ora ha spesso sbagliato, ha mancato il bersaglio, ha imboccato strade chiuse che non portano a nulla.
Abbi pietà di me.
Che vita sarebbe se dovessimo conquistarci ogni cosa, ogni briciolo di pace, di speranza o di felicità con i nostri meriti o con i nostri sforzi? Le gioie più grandi sono sempre quelle che ci arrivano dagli altri.  Dall’amore che riceviamo e diamo. Abbi pietà di me: è la semplice preghiera di chi sa di dipendere continuamente dall’eterna misericordia di Dio e sa che Dio gode di questa misericordia e si compiace di chi si lascia amare più ancora di chi si vanta di amarlo.

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Penultima domenica dopo l’Epifania

È il tempo della misericordia perché ogni peccatore non si stanchi di chiedere perdono
e sentire la mano del Padre che sempre accoglie e stringe a sé.

Questo è il tempo della misericordia. Ogni giorno del nostro cammino è segnato dalla presenza di Dio che guida i nostri passi con la forza della grazia che lo Spirito infonde nel cuore per plasmarlo e renderlo capace di amare. 
È il tempo della misericordia per tutti e per ognuno, perché nessuno possa pensare di essere estraneo alla vicinanza di Dio e alla potenza della sua tenerezza. 
È il tempo della misericordia perché quanti sono deboli e indifesi, lontani e soli possano cogliere la presenza di fratelli e sorelle che li sorreggono nelle necessità. 
Così scrive papa Francesco nella lettera apostolica Misericordia et misera a conclusione del Giubileo della misericordia iniziato l’8 dicembre 2015 e concluso il 20 novembre 2016. 
Dovrebbe essere il tempo della misericordia, ma si stenta a trovarla.
Forse ha ragione Guia Soncini quando scrive che questo è piuttosto il tempo della suscettibilità, che è l’atteggiamento di chi facilmente si offende, si risente, di chi è eccessivamente propenso a ritenere le parole o i gesti altrui come negativo nei suoi confronti.
Detto in altri modi, l’atteggiamento di chi perdona poco e se la prende per tutto; detto con un’altra sola parola: l’atteggiamento di chi è permaloso. A volte basta una battuta scherzosa per andare su tutte le furie. Da piccoli si metteva il broncio, si battevano i piedi per terra e si cominciava a piangere, ma non sempre le cose migliorano diventando grandi, anzi. Si impara a reagire, a contrattaccare, a restituire. Possiamo certo intuire che questo genere di atteggiamento non ha molto da spartire con la misericordia e con la clemenza su cui oggi la liturgia ci invita a meditare.
Suscettibile è Simone, il fariseo, che alla sola vista di quella donna entrata in casa sua ne ha a male e si innervosisce anche contro Gesù: «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi è, e di quale genere è la donna che lo tocca: è una peccatrice!».
Simone è sicuro del suo giudizio su quella donna: è una peccatrice. È altrettanto sicuro che il suo giudizio non possa che essere conosciuto e condiviso da tutti: è una peccatrice.Il permaloso, del resto, solitamente agisce così: all’insicurezza che gli rende difficile accettare critiche, contrappone la sicurezza, la convinzione e la durezza dei suoi giudizi. Evidentemente il presupposto da cui parte è che lui, in quella situazione, sia il giusto. Simone, persona perbene, si sente offeso dalla sola presenza di quella donna e ritiene che quel sentirsi offeso sia già da solo un buon motivo per offendere e anche umiliare. Non teme repliche o smentite; ha ragione lui. Non c’è da discutere. Le cose stanno proprio come dice lui.
Del resto, diciamolo: è un ruolo facile da interpretare. A chi non è mai capitato di trovarsi nei panni di chi credere di sapere, di conoscere e quindi di poter giudicare; nei panni di chi la sa lunga: “Ah se sapessi… la sai l’ultima… sai cosa è successo…”; nei panni di uno dei tanti Simone dei giorni d’oggi, sicuri di conoscere bene le persone; sicuri di sapere tutto della vita degli altri al punto tale da poterla giudicare e a volte perfino condannare; di conoscere a volte anche più dei diretti interessati le cose; nei panni di chi, quando si sente dire che sta esagerando e forse anche sbagliando, si difende, offeso, dicendo: stavo scherzando, non si è capito?
Certo suscettibile non è Gesù e del resto neppure la donna.
Lei non teme il possibile giudizio degli altri che avrà già ascoltato e che già conosce.
Ben diverso è anche Gesù che a Simone dice: ho da dirti qualcosa.
Parliamone. Prima di puntare il dito, scambiamoci qualche pensiero.
Prima di giudicare gli altri, guardiamo a noi stessi. Sono entrato in casa tua e tu non mi hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio; lei invece, da quando sono entrato, non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non hai unto con olio il mio capo. 
I tempi non sono cambiati. Ora è perfino più facile emettere giudizi e sentenze. Prendersi il diritto di dire una parola su tutto, ma sottrarsi alla responsabilità degli effetti delle nostre parole.
Le parole sono tutte leggere quando non sei il bersaglio.
Una cosa è certa: se te la prendi per un niente, farai sempre molta fatica a perdonare e ad essere clemente e benevolo.
Per perdonare occorre lasciar andare, non prendersela, non metterla sempre sul personale.
È il tempo della misericordia perché ogni peccatore non si stanchi di chiedere perdono e sentire la mano del Padre che sempre accoglie e stringe a sé.
Sono la clemenza e il perdono che possono aggiustare questo mondo, non la suscettibilità o il giudizio. In questa era della suscettibilità le parole sono diventate rozze, arroganti, prepotenti e non è di questo che abbiamo bisogno per aggiustare questo mondo, per aggiustare i rapporti, per cercare la verità, per praticare l’amore.
Abbiamo bisogno di clemenza che spegne il desiderio di sopraffare, di vincere e aver ragione ad ogni costo.
Nel “mercante di Venezia” Shakespeare scrive e fa dire ad uno dei personaggi: 
“La clemenza ha natura non forzata
cade dal cielo come pioggia gentile
sulla terra sottostante; è due volte benedetta,
benedice chi la offre e chi la riceve;
(…) sta al di sopra del potere dello scettro,
ha il suo trono nel cuore dei re,
è un attributo di Dio stesso;
e il potere terreno si mostra più simile al divino
quando la clemenza mitiga la giustizia.”
D’ora in poi non giudichiamoci più gli uni gli altri; 
piuttosto fate in modo di non essere causa di inciampo o di scandalo per il fratello.

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FESTE PATRONALI 2024

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Santa Famiglia

senza che i genitori se ne accorgessero

Nella vita si impara dalle vittorie, ma si impara molto anche dalle sconfitte. Si impara dai successi, ma anche dagli errori. È indubbio che in quel viaggio di ritorno di Maria e Giuseppe da Gerusalemme verso caso, qualcosa sia andato storto. Ci viene ricordato, da questo episodio per certi versi imbarazzante della vita di questi due famosi e ammirati genitori, che nella vita capita di perdere e di perdersi.
Capita di perdere la strada e di perdere cose più o meno importanti e di valore.
Capita di perdere tempo e di perdere occasioni. 
Capita di perdere la memoria e capita di perdere la faccia.
Capita di perdere una partita e anche il campionato.
Capita di perdere la testa e capita di perdere peso.
Capita di perdere un amico e capita di perdere l’amore.
Si può perdere di tutto: anche la fede, la speranza, la fiducia.
Capita, ci dice il Vangelo, anche di perdere un figlio.
Capita nella vita di perdere qualcosa o qualcuno. Quando te ne accorgi, è tardi.  Puoi solo metterti a cercare. Normalmente, se ci avessi fatto attenzione prima, non avresti perso quel qualcosa o quel qualcuno. Perché solitamente le cose le perdi senza accorgertene, altrimenti si usa un altro verbo. Te ne privi, te ne liberi e te ne sbarazzi, decidi di buttarle, le regali.
È vero che il verbo perdere può avere a che fare con la casualità, la sfortuna, l’inesperienza, ovvero tutte cose per cui è difficile poi trovare responsabilità. Ma è anche vero che non di rado, il perdere ha a che fare con la negligenza e la trascuratezza, a volte con la distrazione e la noncuranza, con l’incuria e la superficialità.
Non ci è dato di sapere come e perché Maria e Giuseppe abbiano perso di vista Gesù, ma il vangelo ci dice che è capitato. È capitato anche a loro. Escluderei la sfortuna o il caso. A volte basta dare per scontate le cose. Avranno pensato, ma senza chiederselo per avere conferma: sarà con Giuseppe, sarà con Maria, sarà coi i vicini di casa o con i parenti. Pensare senza dirselo: è così che si dà per scontato.
Credo sia questo uno dei motivi più frequenti per cui a volte perdiamo le cose e soprattutto le persone. Accade quando cominci a dare per scontate le cose, quando cominci a risparmiare sulle parole; cominci non tanto ad abbassare la guardia, ma lo sguardo che prima era rivolto all’altro, poi comincia a rivolgersi altrove. Accade quando cominci a pensare che le cose ti siano dovute, che è scontato che l’altro ci sia quando tu hai bisogno, quando ci sei tu.
Eppure nel tempo iniziale di ogni relazione gli sguardi sono sempre molto intensi e vigili. Accade così con un nuovo amico. Accade così con la persona di cui ti innamori: hai occhi solo per lei; certo non è quello il tempo in cui la perdi di vista e il tempo in cui non ti fai vedere. Accade così anche con un figlio quando viene al mondo: tutti hanno occhi solo per lui anche perché lui sa bene come attirare l’attenzione quando ha qualche bisogno.
È perfino esagerato quello che accade all’inizio, ma la vita non è fatta solo di inizi.
La vita non ha il suo segreto solo nel cercare e trovare qualcosa o qualcuno di prezioso.
Il suo segreto è nel saper custodire proprio per non perdere.
Un bambino muore se nessuno se ne prende cura e non lo accudisce. La stessa cosa è per un’amicizia o per un amore; per la fede o per la fiducia; per la memoria o per la testa. Accade così anche con una semplice piantina di fiori.
È nel saper rinnovare una cura, uno sguardo, nel saper tenere viva l’attenzione non su di sé, ma sulle persone a cui vogliamo bene. A volte ancora perdiamo perché ci siamo dimenticati il valore delle cose e delle persone e cominciamo a dare meno: meno impegno, meno tempo, meno fatica, meno attenzione, meno dedizione, meno tenerezza, meno rinunce, meno presenza. Meno.
Abbiamo dimenticato che meritano il nostro tempo, le nostre attenzioni, le nostre premure e il nostro amore. Abbiamo dimenticato che ciò che conta non puoi mai essere scontato; che ciò che conta va tenuto da conto. 
Ci sono momenti in cui è importante accorgersi di aver perso di vista o anche solo prendere atto di una distanza: è quello il momento di tornare a cercarsi, tornando sui proprio passi con umiltà e tenacia, senza paure, senza smarrimenti.  
Il romanzo La vita fino a te di Matteo Bussola inizia così: Pare che i nostri occhi mantengano sempre la stessa grandezza, dalla nascita fino alla morte. S’ingrossa il cuore, i capelli crescono, i muscoli si gonfiano, le gambe si allungano. Gli occhi invece no. Quel che si modifica, nel corso della vita, è il nostro sguardo. Cresce con ciò che scegliamo di metterci dentro, si allarga quando prestiamo attenzione, si restringe con l’indifferenza. La pupilla, per esempio, si dilata del cinquanta per cento di fronte a chi amiamo, come per far passare piú luce. Si riduce quando siamo spaventati, o proviamo disgusto. Uno sguardo può contenere, escludere, accogliere, respingere. Proprio come un paio di mani, la vignetta di un fumetto, l’inquadratura di una foto. Per questo è importante verso cosa lo punti, il fuoco che scegli, l’attimo decisivo che illumina la vita e la trasforma in racconto.
Quello che mettiamo negli occhi e quello che custodiamo dentro il nostro sguardo: per non perdere e per non perdersi.

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3 domenica dopo l’Epifania

il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno

Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate. Così aveva detto Gesù nel discorso della Montagna.
Il Padre sa.
Egli sa di cosa ha bisogno il popolo che sta camminando nel deserto verso la terra promessa e provvede nella sua grandiosa maniera: io sto per far piovere pane dal cielo per voi.
Egli sa di cosa ha bisogno la folla che lo aveva seguito per ascoltarlo fin nei dintorni della città di Betsaida.
Sembrano saperlo anche i discepoli, ma sanno anche, e si rendono conto bene, che quel che hanno non basta per quel bisogno così grande. «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo.
La risposta di Gesù è provocatoria, quasi una sfida, una missione impossibile: voi stessi date loro da mangiare.I discepoli se ne rendono conto e ribattono, non si capisce se dando del matto a Gesù o dichiarando la resa: qui siamo in una zona deserta. Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente.
Il Signore sa di cosa l’uomo ha bisogno e sa come provvedere, a differenza dell’uomo, che oltre a non sapere sempre bene di cosa ha bisogno, non sempre sa provvedere. Accade così che facilmente quando è nel bisogno, invece che invocare, si lamenta.
Le pagine del libro dell’Esodo sono meravigliose. Raccontano di una storia che sembra lontana nel tempo, ma che rimane di una attualità strepitosa. 
Al popolo di Israele vengono continuamente date concrete prove di cosa il Signore è capace nei suoi confronti; accompagnandolo fuori dalla schiavitù di Egitto per condurlo nella terra promessa, rimuove ogni ostacolo, colma ogni bisogno. Il salmo così lo ricorda: Distese una nube per proteggerli e un fuoco per illuminarli di notte. Alla loro richiesta fece venire le quaglie e li saziò con il pane del cielo. Spaccò una rupe e ne sgorgarono acque: scorrevano come fiumi nel deserto.
Ogni difficoltà diventa occasione per Dio di andare in soccorso, ma diventa per il popolo occasione di lamentela, suscita mormorazione e non invocazione: i nostri occhi non vedono altro che questa manna.
Israele esprime addirittura un rimpianto: fossimo morti per mano del Signore in terra d’Egitto; là eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà. La condizione di schiavitù, della quale un tempo s’erano tutti lamentati, ora appare invidiabile. C’era da mangiare, mentre qui, nel deserto, non rimane altro da fare che attendere la morte.
La risposta di Dio l’abbiamo ascoltata: il Signore vi darà carne e voi ne mangerete. Ne mangerete non per un giorno, non per due giorni, non per cinque giorni, non per dieci giorni, non per venti giorni, ma per un mese intero, finché vi esca dalle narici e vi venga a nausea.
Il verbo mormorare descrive bene quello che accade. Non sono parole chiare quelle che si dicono quando si mormora. Non sono parole che si dicono a voce alta e forte. Sono parole brontolate; il verbo mormorare sembra voler anche riprodurre il suono che fanno quelle parole. Non si ha neppure ben chiaro cosa dire per esprimere il disagio che abita il cuore. Il mormorare spesso ha inoltre il sapore della maldicenza, piuttosto che della verità. Ma se il Signore non riesce a sentirlo, sa leggerlo lo stesso direttamente nel cuore. Ascolta e provvede, quasi sempre con abbondanza rispetto al bisogno.
Ma Gesù stesso dirà un giorno: anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede.
La stessa abbondanza la ritroviamo nel segno della moltiplicazione dei pani: tutti mangiarono a sazietà, e portarono via i pezzi avanzati: dodici ceste piene.
Tuttavia la folla non capisce il messaggio; quell’abbondanza, come ogni abbondanza, stordisce. Neppure noi abbiamo ancora capito e ancora la inseguiamo, mai soddisfatti, dimenticandoci che Dio, più di noi, sa di cosa abbiamo davvero bisogno. 
Noi abbiamo trasformato la parola benessere in qualcosa che ha che fare con la ricchezza, con l’agiatezza materiale, dimenticandoci che significa anche semplicemente lo star bene, indipendentemente da quello che si possiede.
Dovremmo imparare a sostituire la parola abbondanza con la parola abbastanza. Ci accorgeremmo che anche cinque pani e due pesci possono bastare; che il segreto non è moltiplicare, ma condividere; non prendere, ma dare.
Chiediamo che il Signore, prima ancora che soddisfare le nostre richieste, ci insegni cosa chiedere; ci insegnaci la gratitudine che ci libera dalla lamentela; ci insegni la lode che ci libera dall’imprecazione; ci insegni la meraviglia che ci libera dall’indifferenza.

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II domenica dopo l’Epifania

la gioia è una cosa seria nella vita!

Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto».  
La determinazione con cui Gesù dà ai servi questo comando ci fa ben intendere che il miracolo è già avvenuto: l’acqua di cui probabilmente si disponeva in abbondanza è diventato vino che nel frattempo a quella festa era venuto a mancare.
Ed essi gliene portarono. Tanto di cappello a questi servi che senza garanzia alcuna eseguono quell’ordine portando al maestro di tavola i contenitori in cui loro avevano versato acqua. Quello che Maria già intuisce e che Gesù da subito sa, a questo punto diventa noto anche al lettore e ai servi: l’acqua è diventata vino.
Curioso e interessante è il seguito del racconto: come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora». 
Mi colpiscono e mi fanno pensare le sue parole.
La prima cosa che raccolgo è che nelle sue parole trovo conferma del fatto che non è detto e scontato che si possa sempre migliorare. Si parte bene, con le migliori intenzioni, ma il seguito non è scontato. A volte le cose peggiorano.  Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. “Così fan tutti” sembra dire il maestro di tavola.
Visto che il vangelo parla di una festa di nozze, diciamo subito che accade così nei matrimoni: all’inizio, quando c’è da conquistare l’altro o farsi conquistare, si mette in gioco tutto di se stessi e soprattutto la parte migliore; poi a volte ci si siede e si comincia a pensare che basti anche meno del meglio.
Accade anche ad un prete: parte con entusiasmo, con fiducia, ma non è detto che l’entusiasmo cresca.
Accade così quando cerchi un lavoro e devi convincere il titolare ad assumerti, devi indicare nel tuo curriculum tutte le esperienze fatte, le abilità acquisite, i titoli di studio conseguiti. Poi quando il contratto è indeterminato, cominci a capire che anche lì non è necessario dare proprio tutto e il meglio.
Accade così nella vita: il meglio, il vino buono, si ritiene sia negli anni della giovinezza e che poi con l’avanzare degli anni e l’arrivo dei primi acciacchi, tutto sia destinato a spegnersi; il fascino di nuove esperienze si riduce perché di esperienze ne hai già fatte tante, perché qualche ferita o graffio ti è rimasto addosso, l’amaro di qualche delusione o sconfitta non se ne va. E in qualche modo ti accorgi che qualcosa si spegne dentro o peggio tenti di tornare giovane.
La seconda cosa che mi colpisce è questo non sapere da dove arriva questo vino.
Penso a quante volte ciascuno di noi è stato sorpreso dalla gioia senza sapere bene da dove arrivi. Penso a quelle situazioni di grazia dove improvvisamente e in maniera inattesa e misteriosa irrompe qualcosa di nuovo a risollevare la situazione; qualcosa che non abbiamo messo nel conto, qualcosa che non abbiamo programmato e previsto; qualcosa su cui non abbiamo nessun merito e controllo; qualcosa che nemmeno sappiamo da dove arriva: non sapeva da dove venisse.
Il vino ad una festa di nozze è cosa seria e indispensabile; la gioia nella vita è cosa seria e indispensabile. Ci accorgiamo che è diversa e molto più profonda dell’allegria spensierata e spassosa di cui a volte ci accontentiamo. 
Non sappiamo sempre dire di preciso cosa sia, come non sempre sappiamo dire da dove arriva, ma ne comprendiamo tutto il suo valore.
Arriva a dirci che quel destino di declino incontrastabile può essere invertito: Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora.
«Qualsiasi cosa vi dica, fatela». La gioia arriva dalla decisione di Dio di avere a che fare con gli uomini, dal suo decidere di non abbandonarli ad un destino di declino. Arriva dalla fiducia riposta in quel Gesù che nell’ultima cena dirà parole simili a quelle di Maria: Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi. 
È così che arriva quella gioia; ti prende e ti solleva sopra ogni fatica. Non importa se non vedi da dove arriva, non importa la sua durata: a volte è come un lampo improvviso, a volte è l’esito di un lento costruirsi di piccoli eventi, parole regalate o ricevute, delicate attenzioni. Non è replicabile, neppure catturabile se non dal cuore che la custodisce, ne custodisce il dolce ricordo e lo trasforma in attesa del suo prossimo passaggio.
Maria, nel suo custodire e meditare tutto nel cuore, aveva intuito. Lo hanno imparato i servitori da dove arriva quel vino e come la festa possa riprendere vita.
“Qualsiasi cosa vi dica, fatela”.
“Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi”.
“Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”.

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Battesimo di Gesù

tutta la costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore

Gesù venne da Nàzaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni.
Ricostruire con esattezza i luoghi dove sono avvenuti i fatti raccontati dal vangelo, non è sempre così facile.  Il vangelo a volte aiuta, a volte rimane generico e indicare con la precisione a cui siamo abituati ora la località esatta non è sempre possibile a distanza di così tanto tempo. Gli evangelisti a proposito del luogo dove è stato battezzato Gesù non sembrano essere interessati a darci indicazioni così precise. Marco oggi ci dice semplicemente che fu battezzato nel Giordano, così Matteo. Luca non dice nulla. Giovanni scrive: “Avvenne in Betania, al di là del Giordano, dove Giovanni stava battezzando” .
Così è stata la tradizione a indentificare il luogo del battesimo con la località di Betabàra, dove il popolo di Israele, guidato da Giosuè – così si racconta – ha attraversato il fiume Giordano, superando quindi uno degli ultimi ostacoli per compiere il cammino dalla schiavitù di Egitto alla libertà regalata da Dio dentro la terra Promessa.
Vien facile comprendere come il legame tra i due fatti sia suggestivo e offra motivo di riflessione, così come è suggestivo ricordare che Betabàra, ci dicono i geologi, sia il punto asciutto più basso della terra, essendo 400 metri sotto il livello del mare. Identificare quel luogo come il luogo del battesimo e dell’inizio della vita pubblica di Gesù, nasce dal pensare che non potesse essere casuale e portasse con sé un grande messaggio, capace di esplicitare il senso del Battesimo di Gesù e del nostro stesso Battesimo.
Innanzitutto, il collegamento con il passaggio verso la terra Promessa. Il sacramento del Battesimo non è un semplice rito di inizio o la semplice occasione di festa per condividere la gioia di una vita nuova. È l’inizio di un cammino di libertà che lo Spirito di Dio sostiene e incoraggia: Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino. Sempre più persone ritengono che non sia giusto riceverlo dopo pochi mesi di vita senza alcuna scelta consapevole da parte del battezzato. Per questo stesso motivo pensano sia più rispettoso e giusto lasciare che ciascuno a suo tempo decida.  Contiene in sé una qualche verità questa posizione, ma è altrettanto vero che ciascuno di noi è diventato grande perché qualcuno con amore si è preso cura di lui, ha preso scelte per lui, a cominciare dal nome e che proprio a partire da cose che non ci siamo scelti abbiamo cominciato a diventare chi siamo.  Niente di tutto questo, che altri hanno fatto, ha limitato la nostra libertà, l’ha piuttosto difesa, custodita e riempita in attesa che ne potessimo diventare i primi responsabili. Quello che riceviamo nel Battesimo non è ostacolo alla libertà, ma è difensore. Ciascuno di noi, diventando grande, quando non ha più la possibilità di lasciar decidere ad altri per sé stessi, sperimenta, a volte con grande fatica, quanto sia complicata la libertà.  Sperimenta come non sempre ciò che piace sia anche il mio bene; come non sempre ciò che non mi piace sia il mio male. 
Dice san Paolo che grazie a Cristo Gesù tutta la costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore; in lui anche voi venite edificati insieme per diventare abitazione di Dio per mezzo dello Spirito.
E poi vi è quel collegamento suggestivo con il punto più basso della terra.
Nella vita può arrivare un momento così difficile e buio da pensare e farci dire di essere caduti in basso o di aver toccato il fondo. In quelle circostanze può accadere di sentirsi persi, finiti o spacciati. Il Battesimo di Gesù racconta la rassicurazione che Dio è in grado di arrivare anche lì; che nessuno può dire di se stesso di essere perso; che Dio non abbandona nessuno e che proprio lì viene a cercarci. Ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona».
Questo Gesù è veramente il Dio con noi, l’atteso dalle genti, luce delle nazioni. Egli non viene per mettere in fila i peccatori davanti a sé, ma per mettersi in fila con i peccatori, per farci capire che il mondo non è condannato, ma è amato. A confermare tutto questo una voce dal cielo dice: “tu sei mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto, in te mi riconosco”. Perché Dio non dimentica e non abbandona.

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