5 domenica di quaresima

fate molta attenzione al vostro modo di vivere,
comportandovi non da stolti ma da saggi, facendo buon uso del tempo

Le parole non sono solo qualcosa che utilizziamo per parlare e comunicare. Sono innanzitutto ciò che noi usiamo per pensare, per capire il mondo fuori e soprattutto il mondo dentro; per dare un nome ai nostri sentimenti, alla nostra gioia e al nostro dolore. Per questo motivo a volte trovo utile andare sul dizionario e leggere le definizioni delle parole che attirano la mia attenzione.
La parola che sono andato a cercare dopo aver letto questo vangelo è un verbo: risorgere. Sul dizionario si legge: tornare in vita; ma si fa riferimento anche all’improvviso e rapido e ritorno in salute di chi è stato malato, o al miglioramento inaspettato del proprio stato d’animo o anche della propria situazione economica. Si fa riferimento anche al tornare allo stato e ad una condizione precedente.
Così mi è tornato in mente la trama di un film: È già domani, con Antonio Albanese, attore protagonista nei panni di Filippo, un giornalista televisivo, autore di documentari sulla natura, con un pessimo carattere e che di fatto disprezza il proprio lavoro. Filippo si deve recare per due giorni in una piccola isola delle Canarie per realizzare un reportage su un raro stormo di cicogne. Partito e arrivato malvolentieri sull’isola, dopo avere effettuato il servizio, non riesce a prendere il traghetto di ritorno a causa di una mareggiata ed è costretto a fermarsi sull’isola per una seconda notte.  La mattina al risveglio si accorge che tutto ciò che aveva vissuto il giorno prima, ieri, si sta ripetendo. Si ritrova così a rivivere ogni mattina. I giorni si ripetono, uguali. Non sapendo cosa fare, si rassegna all’idea di doversi svegliare ogni mattina dentro lo stesso giorno, accorgendosi che qualsiasi cosa faccia, il giorno dopo ogni conseguenza è cancellata.
Così un giorno mangia senza misura. Un giorno spende senza misura. Un giorno diventa cattivo con tutti. Un giorno decide di ammazzare le cicogne. Poi prova a conquistare le donne dell’isola… ma le trova poi tutte noiose. Un giorno decide di togliersi la vita. Tanto il giorno dopo, risorge! Proprio perché sa cosa succede durante il giorno, ad un certo punto tenta di approfittarsene. Se ne approfitta per rendersi simpatico alle donne, tenta perfino di sfruttare la conoscenza di quel che accade per cercare di impedire la morte di un anziano signore che ogni mattina incrocia fuori dall’albergo.
Non vi dico come finisce, ma ricordare questa trama forse ci aiuta a pensare che risorgere non è solo tornare allo stato e alle condizioni di prima, forse non è neppure solo ritrovare la vita dopo la morte.
L’eterno ritorno dello stesso giorno si interrompe nel film, quando comincia a credere in qualcosa e soprattutto in qualcuno, quando inizia a guardare con altri occhi il mondo che ripetutamente lo circonda e tutto ciò che gli capita attorno. Risorgere è forse imparare a rialzarsi, ma soprattutto accettare di cambiare.
La resurrezione di Lazzaro non è un essere portati indietro, ma la possibilità di andare avanti. È la possibilità di non ripetere all’infinito gli stessi errori, di rifare gli stessi sbagli che rendono i giorni tutti uguali.
San Paolo così raccomanda agli Efesini e a tutti noi: fate molta attenzione al vostro modo di vivere, comportandovi non da stolti ma da saggi, facendo buon uso del tempo.
Gesù così ricorda alle due sorelle di Betania: chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?
Credere che il nostro destino non è già disegnato e neppure segnato.
Credere che le cose possono cambiare se noi accettiamo di cambiare con loro.
Credere che anche dopo un sacco di errori ripetuti, vi è una nuova possibilità non solo di riprovarci ma anche di sperare. Credere perché Dio è con noi.
Nel racconto di Giovanni alla resurrezione di Lazzaro sono dedicate poche parole.  Molta più attenzione è data al racconto del dialogo tra Gesù e le due sorelle. È Gesù stesso che ci indica il perchè: Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate.
Affinchè voi crediate! Il vero miracolo è proprio quel tornare a credere perché i nostri giorni non siano una annoiata, stanca e scoraggiata ripetizione.

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4 domenica di quaresima

egli disse: «Credo, Signore!»

Sono tante le occasioni in cui possiamo pensare che la vita sia ingiusta.  Lo avranno pensato anche i genitori del cieco nato quando si sono accorti che il proprio figlio aveva davanti un duro destino da cieco. Lo avrà pensato il cieco stesso, quando ha cominciato a comprendere che a lui non era stato concesso il dono della vista, come quasi a tutti.
Qualcuno a volte tenta di giustificare questo tipo di situazioni immaginando che da qualche parte si nasconda un colpevole, che le cose non accadano così a caso: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?».
Non sappiamo quanti anni avesse quest’uomo, possiamo però immaginare che, in qualche modo, preso consapevolezza della sua situazione, se anche non se ne era fatta una ragione, almeno si era fatto una vita: anche solo da mendicante – «Non è lui quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?» ci chiede la gente – ma pur sempre la sua vita.
Siamo capaci di abituarci a tutto, a volte perfino a rassegnarci. Il rischio è quello poi di non saper cogliere la possibilità di riscattare un destino diverso, per cogliere un’occasione non cercata, un’opportunità non prevista e neppure prevedibile. Sogni quelle possibilità, le immagini, ma poi arrivano e non sei davvero pronto.
Perché ogni occasione comporta una scelta, un lasciare qualcosa che magari non è il meglio, ma è il certo, è la sicurezza, è l’abitudine. Perché non è sempre facile e scontato riconoscerle. Un proverbio popolare così mette in guardia e scoraggia da eccessivi entusiasmi: chi lascia la strada vecchia per la nuova sa quel che lascia e non sa quel che trova.
Questo rischio lo evita direi abilmente il cieco nato.
L’occasione arriva, non è prevista, non è cercata. È suo malgrado coinvolto in una discussione.Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio.L’occasione non è neppure elegante: sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco. Difficile capire che è un’occasione e non l’ennesima umiliazione. Non è neppure immediata e a buon mercato: adesso «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe».
Ma non tutti ci stanno. Ora il difficile è convincere tutti che qualcosa è accaduto, che il miracolo è arrivato, che la sorte è cambiata; che la vita non ha solo sberle da dare, ma qualche volta ha in serbo anche carezze; che anche se un altro proverbio scoraggia dal fidarsi – fidarsi è bene, non fidarsi è meglio – ci sono momenti in cui fidarsi non una possibilità, ma l’unica possibilità: ragionevole e sensata.
Fanno resistenza tutti quelli lo conoscevano – i vicini e quelli che lo avevano visto prima.Fa amaramente sorridere la loro testardaggine, il loro non voler cedere perfino all’evidenza, l’incapacità a credere a quello che vedono, loro che non sono ciechi.Alcuni dicevano: «È lui»; altri dicevano: «No, ma è uno che gli assomiglia». Pare perfino inutile il suo gridare: «Sono io!».
Fanno resistenza i farisei: Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia.Ammettere di aver sbagliato a volte è difficile perché fa crollare un castello intero e non solo qualche mattone. E occorre poi ricostruire con umiltà e fatica.
Fanno resistenza anche i genitori: capiscono che in gioco c’è anche la loro vita, le loro abitudini: “Chiedetelo a lui”. Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei.
A volte la risposta che diamo alla durezza della vita è il cinismo: diventiamo insensibili, mettiamo in conto la facile disponibilità a farci complici silenziosi di qualsiasi cosa a qualunque prezzo.  Tu non disturbare me, che io non disturbo te. Riconosciamo che ogni cosa ha un prezzo, ma non si dà più valore a nulla. Vi è questa resistenza alla fede che a volte si annida anche in noi. Siamo fatti per la gioia, tuttavia la tentazione è spesso quella di chiuderci, di sopportare anche la tristezza pur di non rischiare, travolti dal “qui e ora” delle preoccupazioni del momento. Possibile che a nessuno venga in mente di fare una festa e di gioire per la vista ritrovata di quell’uomo? Anche questo costa così tanta fatica?
Abbiamo questa resistenza a credere e fatichiamo a capire che la fede è resistenza!
È la capacità di attendere anche quando sembra che nulla cambi, che i giorni passino senza una svolta, senza una sorpresa, senza una gioia.
La fede non è sapere tutte le risposte, piuttosto è il modo di rimanere davanti alle domande che non hanno ancora risposta e non sentirsi persi.
Fede è la capacità del cieco nato di fare una sola domanda e di fidarsi della prima risposta: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». Ed egli disse: «Credo, Signore!».

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3 domenica di quaresima

lo schiavo non resta per sempre nella casa; il figlio vi resta per sempre

— C’era una volta…. — Un re! — diranno subito i miei piccoli lettori. 
— No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno.
Non so quanti di voi hanno letto dall’inizio alla fine il libro Pinocchio o almeno hanno visto il film. Spero che tutti conosciate almeno per sommi capi la favola di questo burattino e dei suoi compagni di avventura: Geppetto, il grillo parlante, Mangiafuoco, il gatto e la volpe, la fatina, Lucignolo, il pescecane…
La favola di un burattino che ama e insegue la sua libertà e nel cercarla rischia di perdere più volte perfino la vita. Una storia di libertà e di bugie; una storia di buoni propositi e illusioni; di promesse e di delusioni; di progetti e di inganni; di buone intenzioni e di pessimi risultati. Il paese dei balocchi, il campo dei miracoli, il teatro dei burattini… dietro ogni angolo c’è l’occasione – che Pinocchio regolarmente coglie – di fare la cosa sbagliata con una leggerezza che diventa irritante che, capitolo dopo capitolo, accresce l’antipatia verso questo burattino presuntuoso sempre pronto a scaricare su altri la responsabilità di quanto gli accade. Basta sempre un niente per distoglierlo dai suoi buoni propositi: un incontro, una musica, un invito, una distrazione…
C’era una volta un pezzo di legno che oggi mi pare possa aiutarci a comprendere questo vangelo così complicato.
Come non ritrovare infatti una profonda sintonia tra le parole di Gesù e questa favola di Collodi. Nei panni di Pinocchio, possiamo certo ben immaginare questi Giudei che discutono con Gesù, così gelosi della loro libertà, così sicuri della loro verità, così offesi e innervositi dalla parola di Gesù che la memoria torna al capitolo IV e al martello che Pinocchio scaglia contro il Grillo parlante che lo aveva messo in guardia: “Guai a quei ragazzi che si ribellano ai loro genitori e che abbandonano capricciosamente la casa paterna. Non avranno mai bene in questo mondo; e prima o poi dovranno pentirsene amaramente.
«Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». Gli risposero: «Noi siamo discendenti di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi dire: “Diventerete liberi”?».Voi cercate di uccidermi perché la mia parola non trova accoglienza in voi. I richiami sono molti.
La storia di Pinocchio, come questo racconto evangelico, mette a nudo le nostre debolezze, le nostre finzioni, le nostre piccole e grandi bugie con cui cerchiamo di ritagliarci e aggiustarci scelte e regole su misura non del bene, ma del comodo. 
Ci mettono di fronte alle severe parole di Gesù: «Se foste figli di Abramo, fareste le opere di Abramo. 
Ci mettono di fronte alla facile tentazione delle delega, del credere alla promessa facile, dell’illusione che qualcuno ci tirerà fuori dai guai e nel frattempo noi proveremo ad arrangiarci in qualche maniera, meglio ancora se furba e scaltra, in attesa di quel qualcuno. La tentazione di un salvatore che allontani ogni pericolo e ogni nemico, che ci esenti da ogni fatica e da ogni impegno, da ogni sacrificio e da ogni responsabilità, che decida per noi in modo da poter poi avere qualcuno da incolpare se le cose vanno male… Che ci permetta di fare la parte della vittima e di trovare sempre un nemico con cui prendercela…
Uno dei primi guai che Pinocchio combina è di vendere l’abbecedario, il libro delle parole.
Non potete dare ascolto alla mia parola. Voi non ascoltate.
Per due volte i Giudei vengono ripresi con queste parole.
Pinocchio è uno che non ascolta. E quando ascolta, poi fa quello che vuole. Oppure peggio, ascolta e si fida delle persone sbagliate. Regole, paletti, limiti e confini non gli vanno a genio. Regolarmente anche se inconsapevolmente li abbatte, cacciandosi continuamente nei guai e creando danni. Il suo pentimento dura sempre troppo poco.
L’uomo, noi, corriamo questo stesso rischio da cui Gesù mette in guardia: Se uno osserva la mia parola… Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi».
Pinocchio è una fiaba, scritta forse anche un po’ di malavoglia da Carlo Lorenzini, che preferisce però rimanere nell’ombra e firmarsi “Collodi”; scritta per un giornale di bambini, a puntate irregolari e interrotto due volte, ma è la nostra storia; è la storia dell’avventura di diventare e rimanere uomini. Travestita da fiaba c’è quel segreto tanto difficile da digerire per i giudei di allora come ci dice il Vangelo e per tutti i bambini del mondo e per il bambino che rimane in noi: la libertà è impegnativa e ha bisogno ogni volta di essere guidata.
«Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi».Nella storia di Pinocchio c’è sempre una voce che in ogni guaio lo guida, quando si decide ad ascoltarla diventa un bambino in carne e ossa.  C’è sempre anche nella nostra storia una Parola del Signore che ci guida e rischiara il cammino. Occorre ascoltarla e rimanere in quella Parola. Bellissimo questo rimanere. Il Signore sa che non sempre ci viene facile metterla in pratica, come non è stata facile per Pinocchio. Ci dice rimanete voi nella Parola. È qualcosa di diverso dal tienila dentro: dentro ci sono tante altre voci che ci confondono. Stai tu nella Parola, stacci dentro e imparerai la verità e conoscerai la libertà.

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2 domenica di quaresima

se tu conoscessi…

Seconda domenica. Domenica della samaritana. È questa donna che oggi Gesù incontra quando arriva al pozzo di Sicar. A lei Gesù si rivolge manifestando quasi in maniera sfacciata il suo bisogno: «Dammi da bere». I due non si erano mai incontrati e forse mai più si incontreranno. Viene spontaneo dire che quindi non si conoscano.
In realtà leggendo il racconto è possibile dire che qualcosa sanno l’uno dell’altro.
La samaritana conosce qualcosa di Gesù, ma è qualcosa di poco personale e di molto superficiale. Tu sei un Giudeo. Sei un uomo. Hai sete. Non dovresti chiedere da bere a me perché sono samaritana e i giudei e i samaritani non vanno d’accordo.
I Giudei, infatti, non hanno rapporti con i Samaritani: Giovanni si premura di spiegarcelo. Un’antipatia e un risentimento antico li divide. Alcuni dei motivi li ritroviamo qualche versetto dopo quando la samaritana dice: I nostri padri hanno adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare. Altri li ritroviamo nella risposta di Gesù: Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Motivi religiosi, politici, culturali!
La samaritana fa quasi capire che Gesù non dovrebbe neppure rivolgerle parola!
Poco sa la samaritana di Gesù. Lui glielo fa notare dicendole: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva».Nelle poche parole di Gesù che Giovanni ci riporta c’è evidentemente molto altro: non hai proprio capito con chi stai parlando; perché se sapessi davvero chi sono allora avresti capito che il mio bisogno di dissetarmi, non è nulla in confronto al tuo bisogno, che non è solo quello di non dover più far la fatica di andare avanti e indietro da un pozzo per attingere la quotidiana provvista d’acqua necessaria alla vita. Se tu sapessi davvero chi sono, non mi chiederesti semplicemente dell’acqua.  Ma ancora non sai chi sono. 
Anche Giovanni Battista un giorno vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!  Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”.  Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele».
Io non lo conoscevo! Se tu conoscessi…
Il bello è che in questo dialogo tra due sconosciuti, emerge che Gesù sa molte più cose della donna a cui aveva chiesto da bere. Sa che è una samaritana. Sa che ha avuto cinque mariti. Sa che ha una brocca, che è capace di attingere acqua al pozzo, che quindi gli può dare quell’aiuto chiesto.
Una conoscenza che inizialmente stupisce la donna e che fa capire a lei qualcosa di più di Gesù: «Signore, vedo che tu sei un profeta! Una conoscenza che pian piano cresce:  La donna intanto lasciò la sua anfora, andò in città e disse alla gente: «Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?».
Non è più solo un giudeo, come lo aveva definito all’inizio, non è più solo un profeta; il sospetto ora è che quell’uomo si proprio il Cristo, il Messia che quando verrà ci annuncerà ogni cosa.
Conoscere Dio e sapersi conosciuti.
Questa è la fede, la nostra fede che a volte vacilla o si raffredda semplicemente perché abbiamo la presunzione di aver già conosciuto abbastanza Gesù, di sapere già tutto quello che serve.
Come possono intere generazioni di uomini e donne cresciuti nei cortili dell’oratorio e all’ombra del campanile essersi ora così facilmente allontanati? Cosa è mancato, cosa manca? Forse manca proprio la necessaria consapevolezza di non aver ancora conosciuto abbastanza per lasciar perdere.
Io credo sia proprio dalle parole di Gesù che dovremmo ripartire: se tu conoscessi…
Il finale del racconto mi sembra significativo. Molti Samaritani di quella città credettero in lui per la parola della donna, che testimoniava: «Mi ha detto tutto quello che ho fatto». 
Molti di più credettero perché chiesero a Gesù di fermarsi con loro e dopo averlo ascoltato direttamente dicevano alla donna: «Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo».
Non ci accontentiamo di quel che abbiamo sentito tanti anni fa a catechismo.
Siamo andati a cercarlo di persona, lo abbiamo ascoltato e abbiamo creduto!

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1 domenica di Quaresima

Il tentatore gli si avvicinò

Poter vivere una quaresima è un dono di grazia.  Non è certamente una passeggiata, chiede e occorre un grande impegno. Non è una formalità, chiede e occorre tanta sincerità e insieme umiltà. Non è un obbligo; chiede e occorre il cuore. Occorre costanza: 40 giorni sono tanti. Occorre anche regolarità: bisognerà far attenzione a trovare il passo giusto per evitare di fare propostiti che non riusciamo poi a mantenere o al contrario di non farne neppure uno e di navigare a vista, senza un programma, senza qualche punto fermo. Ricordo un principio che suggerivano al tempo del Seminario.
È il tempo in cui cominciare a fare quello che si dovrebbe fare e non si fa.
Di fare bene quello che semplicemente si fa per fare.
Fare meglio quello che pure si fa già bene.
Un principio di progressione che ha una sua sapienza e che permette a tutti di camminare al passo giusto.
I vangeli con un piccolo sforzo di memoria li conosciamo, si può dire che son sempre quelli, ma siam noi diversi dall’ultima volta che li abbiamo ascoltati e questo ci permette di tornare a sentirli come nuovi.
Il primo è quello che abbiamo appena ascoltato. Il racconto delle tentazioni di Gesù.
Il Signore Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò.
Non è di poco conto notare che tra le parole che Gesù consegnerà ai propri discepoli di ogni tempo ci stanno anche queste: non ci abbandonare alla tentazione/non ci indurre in tentazione. Non è cosa da poco pensare che proprio dopo averla conosciuta in prima persona, Gesù suggerisca ai suoi discepoli di invocare l’aiuto del Padre per evitare di entrare e di cadere. Il tentatore si mostra infatti abile e affrontarlo non è mai facile. La sfida che lancia passa attraverso una piccola congiunzione che ritroveremo altre volte anche nelle altre domeniche e che già oggi in questo vangelo troviamo due volte esattamente sulla bocca del tentatore: SE.
Due semplici lettere che diventano una congiunzione, per l’esattezza una congiunzione condizionale, ovvero che presenta delle condizioni o delle conseguenze. Se tu fai questo, allora accade questo.
Oggi la ritroviamo tre volte e ogni volta è sulla bocca di colui che è chiamato prima il diavolo e poi il tentatore. «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane»
«Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; »
Infine, l’ultima «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai».
Il diavolo è colui che divide: quello che quando ti vede in un momento di difficoltà o di debolezza arriva a farti credere di poterti aiutare subito e senza che tu debba fare molto; è quello che quando vede dentro di te un’indecisione ci si infila per farti prendere la decisione sbagliata, dopo averla travestita elegantemente. 
Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane» Davvero elegante come soluzione, affascinante. Cosa c’è di male?
Il tentatore è colui che tenta, fa tentativi, ci prova. Il primo tentativo fallisce, il secondo anche, prova di nuovo con il terzo e solo a quel punto si arrende.
Gesù non abbocca a quel SE, non ci sta a cedere alle condizioni del diavolo.
Non si domanda solo: cosa c’è di male, ma si domanda: dove è il bene? 
Non si domanda solo: Quali sono le conseguenze? 
Quando nel cuore sentiamo affiorare la domanda retorica: “che male c’è?” è il momento di stare in guarda.
San Paolo nella lettera ai Corinzi: «Tutto mi è lecito!». Ma non tutto giova. «Tutto mi è lecito!». Ma io non mi lascerò dominare da nulla.
Anche con noi – lo ha fatto con Gesù! – in questo tempo di quaresima il tentatore ci proverà, ci metterà alla prova, tenterà di distrarci, di farci inciampare, ci farà promesse.
Lo farà con i suoi se e i suoi ma… suggerendoci modi di fare e di essere diversi da quelli proposti dal vangelo, ogni volta promettendo e lasciandoci immaginare vantaggi più grandi.
Non siamo obbligati ad ascoltarlo. Lui ci proverà, ma starà a noi scegliere. A dire, come Gesù: vattene! A non stancarci prima di lui. Perché sia lui ad andarsene e non noi a perdere la strada.

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Ultima dopo l’Epifania

Abbi pietà di me.

La parabola che ci è donata in questa ultima domenica dopo l’Epifania, prima che si apra il tempo di Quaresima, oso definirla divisiva. Letteralmente; divide, crea divisioni e contrapposizioni: chi sta da una parte e chi sta dall’altra. Fin dall’inizio.
Il Signore Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri. 
E subito qualcuno potrebbe riconoscersi in questa definizione: riconoscere di essere uno che fatica ad ammettere i propri errori, che ritiene di essere tutto sommato una brava persona, soprattutto se paragonata con gli altri; qualcuno potrebbe anche riconoscere la propria propensione alla facile critica, di non essere uno che le manda a dire, che facilmente fa confronti e che magari qualche volta arriva anche a sentimenti di disprezzo.
Qualcun altro potrebbe invece non riconoscersi in questa descrizione e ritenere che questa parabola non sia rivolta a lui. Potrebbe anzi ritenere di essere troppo spesso lui la persona sempre giudicata, umiliata e presa di mira.
È divisiva la situazione descritta poi dalla parabola stessa: Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Uno stava in piedi, fiero, pieno di parole e a suo dire anche di buone azioni da esibire. Ritiene di aver maturato meriti sufficienti per parlare con Dio faccia a faccia, anche se di lui si dice che pregava tra sé e sé piuttosto che guardare Dio, guarda con disprezzo al pubblicano, conveniente metro di misura per accreditare se stesso davanti a Dio; un monumento rappresentante il bravo cittadino e buon credente a cui Dio può solo rivolgere uno sguardo compiaciuto e a cui il mondo deve ammirazione e gratitudine.
L’altro, rimasto a distanza, possiamo immaginare forse anche sul fondo del tempio, accanto alle porte di ingresso, povero di parole e di risultati, carico di sconfitte e amarezza: non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, figurarsi innalzare preghiere! La persona giusta a cui dar contro e contro cui protestare, professionista dell’inganno e della truffa; termine di paragone utile a chi vuol sentirsi migliore.
Due modi diversi non solo di pregare, ma di vivere.
Divisivo il giudizio che ciascuno di noi può dare sulle loro vite.
Qualcuno potrebbe ben dire: ce ne fossero di persone come questo fariseo. Il mondo andrebbe meglio e non avremmo paura ad andare in giro per poi attaccare con la seconda strofa: i peccatori, quelli che sbagliano vanno condannati e puniti. 
Il ritornello lo prendiamo direttamente dal fariseo: O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano.
Qualcuno potrebbe invece sentir fastidio dalla superbia del primo, da quella sua supponenza che solitamente genera antipatia, e commosso dall’umiltà del secondo, dalla sua semplicità che solitamente genera tenerezza e confidenza.
Io credo che per evitare ogni contrapposizione e impoverente divisione, l’unica parte da cui mettersi è quella di Dio. Chiedere alla parabola di farci vedere come Dio guarda a questi uomini e domandarci come vogliamo essere visti da Dio.
E se ci mettiamo dalla parte di Dio ci accorgiamo subito della differenza tra la preghiera del primo, fatta di parole, e la preghiera del secondo, fatta di gesti: fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto.
Mi piace pensare che quel battersi il petto sia come un bussare alla porta del cuore, nel desiderio di rientrarci e trovarvi Dio. Si dice così del figlio prodigo: rientrò in se stesso.
Battersi il petto per chiedere a Dio di riaprirlo, di farci entrare, di rimetterci in contatto con la porzione più vera di noi stessi; per riguadagnare fiducia e stima non attraverso i nostri meriti, ma attraverso l’amore di Dio. 
Per presentarsi, dopo aver bussato a quella porta, si presenta con questo nome: sono un peccatore, ti chiedo di aprirmi. Sono quello che fino ad ora ha spesso sbagliato, ha mancato il bersaglio, ha imboccato strade chiuse che non portano a nulla.
Abbi pietà di me.
Che vita sarebbe se dovessimo conquistarci ogni cosa, ogni briciolo di pace, di speranza o di felicità con i nostri meriti o con i nostri sforzi? Le gioie più grandi sono sempre quelle che ci arrivano dagli altri.  Dall’amore che riceviamo e diamo. Abbi pietà di me: è la semplice preghiera di chi sa di dipendere continuamente dall’eterna misericordia di Dio e sa che Dio gode di questa misericordia e si compiace di chi si lascia amare più ancora di chi si vanta di amarlo.

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Penultima domenica dopo l’Epifania

È il tempo della misericordia perché ogni peccatore non si stanchi di chiedere perdono
e sentire la mano del Padre che sempre accoglie e stringe a sé.

Questo è il tempo della misericordia. Ogni giorno del nostro cammino è segnato dalla presenza di Dio che guida i nostri passi con la forza della grazia che lo Spirito infonde nel cuore per plasmarlo e renderlo capace di amare. 
È il tempo della misericordia per tutti e per ognuno, perché nessuno possa pensare di essere estraneo alla vicinanza di Dio e alla potenza della sua tenerezza. 
È il tempo della misericordia perché quanti sono deboli e indifesi, lontani e soli possano cogliere la presenza di fratelli e sorelle che li sorreggono nelle necessità. 
Così scrive papa Francesco nella lettera apostolica Misericordia et misera a conclusione del Giubileo della misericordia iniziato l’8 dicembre 2015 e concluso il 20 novembre 2016. 
Dovrebbe essere il tempo della misericordia, ma si stenta a trovarla.
Forse ha ragione Guia Soncini quando scrive che questo è piuttosto il tempo della suscettibilità, che è l’atteggiamento di chi facilmente si offende, si risente, di chi è eccessivamente propenso a ritenere le parole o i gesti altrui come negativo nei suoi confronti.
Detto in altri modi, l’atteggiamento di chi perdona poco e se la prende per tutto; detto con un’altra sola parola: l’atteggiamento di chi è permaloso. A volte basta una battuta scherzosa per andare su tutte le furie. Da piccoli si metteva il broncio, si battevano i piedi per terra e si cominciava a piangere, ma non sempre le cose migliorano diventando grandi, anzi. Si impara a reagire, a contrattaccare, a restituire. Possiamo certo intuire che questo genere di atteggiamento non ha molto da spartire con la misericordia e con la clemenza su cui oggi la liturgia ci invita a meditare.
Suscettibile è Simone, il fariseo, che alla sola vista di quella donna entrata in casa sua ne ha a male e si innervosisce anche contro Gesù: «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi è, e di quale genere è la donna che lo tocca: è una peccatrice!».
Simone è sicuro del suo giudizio su quella donna: è una peccatrice. È altrettanto sicuro che il suo giudizio non possa che essere conosciuto e condiviso da tutti: è una peccatrice.Il permaloso, del resto, solitamente agisce così: all’insicurezza che gli rende difficile accettare critiche, contrappone la sicurezza, la convinzione e la durezza dei suoi giudizi. Evidentemente il presupposto da cui parte è che lui, in quella situazione, sia il giusto. Simone, persona perbene, si sente offeso dalla sola presenza di quella donna e ritiene che quel sentirsi offeso sia già da solo un buon motivo per offendere e anche umiliare. Non teme repliche o smentite; ha ragione lui. Non c’è da discutere. Le cose stanno proprio come dice lui.
Del resto, diciamolo: è un ruolo facile da interpretare. A chi non è mai capitato di trovarsi nei panni di chi credere di sapere, di conoscere e quindi di poter giudicare; nei panni di chi la sa lunga: “Ah se sapessi… la sai l’ultima… sai cosa è successo…”; nei panni di uno dei tanti Simone dei giorni d’oggi, sicuri di conoscere bene le persone; sicuri di sapere tutto della vita degli altri al punto tale da poterla giudicare e a volte perfino condannare; di conoscere a volte anche più dei diretti interessati le cose; nei panni di chi, quando si sente dire che sta esagerando e forse anche sbagliando, si difende, offeso, dicendo: stavo scherzando, non si è capito?
Certo suscettibile non è Gesù e del resto neppure la donna.
Lei non teme il possibile giudizio degli altri che avrà già ascoltato e che già conosce.
Ben diverso è anche Gesù che a Simone dice: ho da dirti qualcosa.
Parliamone. Prima di puntare il dito, scambiamoci qualche pensiero.
Prima di giudicare gli altri, guardiamo a noi stessi. Sono entrato in casa tua e tu non mi hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio; lei invece, da quando sono entrato, non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non hai unto con olio il mio capo. 
I tempi non sono cambiati. Ora è perfino più facile emettere giudizi e sentenze. Prendersi il diritto di dire una parola su tutto, ma sottrarsi alla responsabilità degli effetti delle nostre parole.
Le parole sono tutte leggere quando non sei il bersaglio.
Una cosa è certa: se te la prendi per un niente, farai sempre molta fatica a perdonare e ad essere clemente e benevolo.
Per perdonare occorre lasciar andare, non prendersela, non metterla sempre sul personale.
È il tempo della misericordia perché ogni peccatore non si stanchi di chiedere perdono e sentire la mano del Padre che sempre accoglie e stringe a sé.
Sono la clemenza e il perdono che possono aggiustare questo mondo, non la suscettibilità o il giudizio. In questa era della suscettibilità le parole sono diventate rozze, arroganti, prepotenti e non è di questo che abbiamo bisogno per aggiustare questo mondo, per aggiustare i rapporti, per cercare la verità, per praticare l’amore.
Abbiamo bisogno di clemenza che spegne il desiderio di sopraffare, di vincere e aver ragione ad ogni costo.
Nel “mercante di Venezia” Shakespeare scrive e fa dire ad uno dei personaggi: 
“La clemenza ha natura non forzata
cade dal cielo come pioggia gentile
sulla terra sottostante; è due volte benedetta,
benedice chi la offre e chi la riceve;
(…) sta al di sopra del potere dello scettro,
ha il suo trono nel cuore dei re,
è un attributo di Dio stesso;
e il potere terreno si mostra più simile al divino
quando la clemenza mitiga la giustizia.”
D’ora in poi non giudichiamoci più gli uni gli altri; 
piuttosto fate in modo di non essere causa di inciampo o di scandalo per il fratello.

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FESTE PATRONALI 2024

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Santa Famiglia

senza che i genitori se ne accorgessero

Nella vita si impara dalle vittorie, ma si impara molto anche dalle sconfitte. Si impara dai successi, ma anche dagli errori. È indubbio che in quel viaggio di ritorno di Maria e Giuseppe da Gerusalemme verso caso, qualcosa sia andato storto. Ci viene ricordato, da questo episodio per certi versi imbarazzante della vita di questi due famosi e ammirati genitori, che nella vita capita di perdere e di perdersi.
Capita di perdere la strada e di perdere cose più o meno importanti e di valore.
Capita di perdere tempo e di perdere occasioni. 
Capita di perdere la memoria e capita di perdere la faccia.
Capita di perdere una partita e anche il campionato.
Capita di perdere la testa e capita di perdere peso.
Capita di perdere un amico e capita di perdere l’amore.
Si può perdere di tutto: anche la fede, la speranza, la fiducia.
Capita, ci dice il Vangelo, anche di perdere un figlio.
Capita nella vita di perdere qualcosa o qualcuno. Quando te ne accorgi, è tardi.  Puoi solo metterti a cercare. Normalmente, se ci avessi fatto attenzione prima, non avresti perso quel qualcosa o quel qualcuno. Perché solitamente le cose le perdi senza accorgertene, altrimenti si usa un altro verbo. Te ne privi, te ne liberi e te ne sbarazzi, decidi di buttarle, le regali.
È vero che il verbo perdere può avere a che fare con la casualità, la sfortuna, l’inesperienza, ovvero tutte cose per cui è difficile poi trovare responsabilità. Ma è anche vero che non di rado, il perdere ha a che fare con la negligenza e la trascuratezza, a volte con la distrazione e la noncuranza, con l’incuria e la superficialità.
Non ci è dato di sapere come e perché Maria e Giuseppe abbiano perso di vista Gesù, ma il vangelo ci dice che è capitato. È capitato anche a loro. Escluderei la sfortuna o il caso. A volte basta dare per scontate le cose. Avranno pensato, ma senza chiederselo per avere conferma: sarà con Giuseppe, sarà con Maria, sarà coi i vicini di casa o con i parenti. Pensare senza dirselo: è così che si dà per scontato.
Credo sia questo uno dei motivi più frequenti per cui a volte perdiamo le cose e soprattutto le persone. Accade quando cominci a dare per scontate le cose, quando cominci a risparmiare sulle parole; cominci non tanto ad abbassare la guardia, ma lo sguardo che prima era rivolto all’altro, poi comincia a rivolgersi altrove. Accade quando cominci a pensare che le cose ti siano dovute, che è scontato che l’altro ci sia quando tu hai bisogno, quando ci sei tu.
Eppure nel tempo iniziale di ogni relazione gli sguardi sono sempre molto intensi e vigili. Accade così con un nuovo amico. Accade così con la persona di cui ti innamori: hai occhi solo per lei; certo non è quello il tempo in cui la perdi di vista e il tempo in cui non ti fai vedere. Accade così anche con un figlio quando viene al mondo: tutti hanno occhi solo per lui anche perché lui sa bene come attirare l’attenzione quando ha qualche bisogno.
È perfino esagerato quello che accade all’inizio, ma la vita non è fatta solo di inizi.
La vita non ha il suo segreto solo nel cercare e trovare qualcosa o qualcuno di prezioso.
Il suo segreto è nel saper custodire proprio per non perdere.
Un bambino muore se nessuno se ne prende cura e non lo accudisce. La stessa cosa è per un’amicizia o per un amore; per la fede o per la fiducia; per la memoria o per la testa. Accade così anche con una semplice piantina di fiori.
È nel saper rinnovare una cura, uno sguardo, nel saper tenere viva l’attenzione non su di sé, ma sulle persone a cui vogliamo bene. A volte ancora perdiamo perché ci siamo dimenticati il valore delle cose e delle persone e cominciamo a dare meno: meno impegno, meno tempo, meno fatica, meno attenzione, meno dedizione, meno tenerezza, meno rinunce, meno presenza. Meno.
Abbiamo dimenticato che meritano il nostro tempo, le nostre attenzioni, le nostre premure e il nostro amore. Abbiamo dimenticato che ciò che conta non puoi mai essere scontato; che ciò che conta va tenuto da conto. 
Ci sono momenti in cui è importante accorgersi di aver perso di vista o anche solo prendere atto di una distanza: è quello il momento di tornare a cercarsi, tornando sui proprio passi con umiltà e tenacia, senza paure, senza smarrimenti.  
Il romanzo La vita fino a te di Matteo Bussola inizia così: Pare che i nostri occhi mantengano sempre la stessa grandezza, dalla nascita fino alla morte. S’ingrossa il cuore, i capelli crescono, i muscoli si gonfiano, le gambe si allungano. Gli occhi invece no. Quel che si modifica, nel corso della vita, è il nostro sguardo. Cresce con ciò che scegliamo di metterci dentro, si allarga quando prestiamo attenzione, si restringe con l’indifferenza. La pupilla, per esempio, si dilata del cinquanta per cento di fronte a chi amiamo, come per far passare piú luce. Si riduce quando siamo spaventati, o proviamo disgusto. Uno sguardo può contenere, escludere, accogliere, respingere. Proprio come un paio di mani, la vignetta di un fumetto, l’inquadratura di una foto. Per questo è importante verso cosa lo punti, il fuoco che scegli, l’attimo decisivo che illumina la vita e la trasforma in racconto.
Quello che mettiamo negli occhi e quello che custodiamo dentro il nostro sguardo: per non perdere e per non perdersi.

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