3° domenica di Pasqua

Tienimi un posto Signore.

Le parole rivolte da Gesù ai suoi discepoli durante l’ultima cena, che Giovanni raccoglie nel suo vangelo nei capitoli che vanno dal 14 al 17, sono così dense e ricche che andrebbero lette a piccole dosi, pochi versetti alla volta. Oggi la liturgia ce le offre in una misura così abbondante che comincio con il prendere solo alcune delle parole che abbiamo ascoltato, per cercare e indicare qualche sentiero di preghiera.
Potrebbe così bastare prendere in considerazione il versetto 2 e 3 del capitolo dove Giovanni riferisce queste parole: Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. 
Leggendole mi viene in mente quando, incominciando le vacanze estive in montagna, i ragazzi chiedono: “posso stare in stanza con i miei amici?”. È così importante avere qualcuno che ti tiene il posto che lascio fare a loro le stanze, vigilando semplicemente sul fatto che nessuno venga escluso e rimanga senza posto.
Già da molte settimane prima, cominciano a chiedere quanto sono grandi le stanze, quanti letti hanno, così da capire con quanti amici ci si può accordare e ancora prima alla partenza, salendo sul pullman, fanno di tutto per stare seduti vicino a loro.
L’importanza di tutto questo la conoscono bene gli sposi che devono organizzare i tavoli del ricevimento. Anche noi, quando usciamo in compagnia a mangiare, sappiamo bene anche noi che decidere dove sederti non è sempre una scelta che convenga lasciare al caso.
“Ti tengo il posto” o “tienimi il posto”: sono le frasi con cui si esplicita non semplicemente il bisogno di avere un letto in una stanza o il posto a sedere sul pullman, ma si esplicita il desiderio preciso di vivere una certa esperienza con qualcuno a cui tieni e che tiene a te.
In quelle frasi c’è la consapevolezza che il viaggio fatto con una persona amica è molto più piacevole che fatto con uno sconosciuto; che condividere la stanza e il tempo quindi della notte e non semplicemente del giorno con una persona cara, rende la vacanza già così qualcosa di speciale. L’essere seduti accanto è occasione per scambiare parole o anche condividere il silenzio, possibilità per qualche confidenza e più lunghi discorsi.
Quando qualcuno ti dice: “ti tengo il posto” ti sta implicitamente dicendo che tu sei importante; che ci tiene ad averti vicino fisicamente e che tu comunque hai già un posto nel suo cuore. È una palese dichiarazione di affiatamento e di simpatia. “Ti tengo il posto” ha il sapore e il profumo buono dell’amicizia e del bene.
È la dimostrazione che la vita è fatta soprattutto di relazioni e di legami che spezzano la solitudine, che scacciano la paura che a nessuno importi di te; legami che ci permettono di credere che siamo importanti per qualcuno.
Oggi, se torniamo al vangelo, accade che sia Gesù a dire ai suoi discepoli: vado a prepararvi un posto.  Vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. 
Le parole di Gesù, che Giovanni oggi ci regala, ci raccontano del desiderio di Dio di averci accanto.  È Dio che dice a ciascuno di noi: la mia casa senza di te è vuota. Io mi sento a casa se ci sei tu. Oggi a questo vangelo non dobbiamo chiedere chissà quali pensieri su Dio, ma dobbiamo chiedere di farci sentire la straordinaria emozione di aver davanti a noi un Dio che ci dice: “ti tengo il posto. Tu devi essere con me.”
Ma noi siamo capaci di dire la stessa cosa? Siamo capaci di dire: ti tengo un posto nella mia vita, nei miei pensieri, nel mio tempo?
Se capissimo questa cosa, se sapessimo anche emozionarci di questa promessa di Gesù, allora anche noi ricambieremmo il favore, almeno una volta ogni tanto e diventeremmo capaci di dire al Signore: “anche io ti ho preparato un posto nella mia casa, te l’ho preparato nella mia vita, nel mio cuore, nei miei pensieri. Con te accanto il viaggio della vita è diverso; mi sento più sicuro; so di potermi confidare, so di potermi fidare. So che una tua parola detta al momento giusto sa riportare pace nel mio cuore, sa sciogliere i turbamenti; mi sostiene quando c’è da prendere una decisione importante; spezza la solitudine.”
C’è una vecchia canzone degli 883 che dice così:Come è bello il mondo insieme a te. Mi sembra impossibile che tutto ciò che vedo c’è da sempre,è solo che io non sapevo come fare per guardare ciò che tu mi fai vedere. Come è grande il mondo insieme a te
È come rinascere e vedere finalmente che rischiavo di perdere mille miliardi e più di cose
se tu non mi avessi fatto il dono di dividerle con me.

Come è bello Signore il mondo insieme a te.

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2 domenica di Pasqua

Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco

Anche quando parliamo della Pasqua facciamo ricorso ad un linguaggio per così dire bellico. Cristo ha vinto la morte, ha sconfitto il peccato, ha disperso i nemici. È il rischio che corriamo in molte situazioni. Quando parliamo di una malattia, quando ci siamo ritrovati in una pandemia, quando ci sono delle elezioni politiche e addirittura in generale dentro il dibattito politico, quando si parla di un gioco e di sport. Anche una semplice conversazione più diventare un duello o uno scontro. Parliamo di avversari, di rivali, di nemici. Parliamo di vinti e di vincitori, di perdenti e di trionfatori.
La metafora della guerra e della battaglia ci presta le parole e riempie tanti nostri discorsi.
E normalmente a nessuno piace stare dalla parte dello sconfitto. A nessuno piace neppure arrivare secondo;  molto più facile e attraente riuscire a salire sul carro del vincitore.Ma questa preferenza per questo genere di forza forse mette a nudo esattamente la nostra debolezza, la nostra fatica a fare i conti con il limite, con la possibilità sgradita, ma naturale, di subire una sconfitta, con le nostre fragilità.
Voglio ancora una volta dichiarare la mia simpatia per questo discepolo, chiamato Tommaso, che oggi di fronte ai suoi amici che gli annunciano «Abbiamo visto il Signore!» dice loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Tommaso non chiede nulla del Risorto, non è quello che desidera vedere, non ha bisogno di quello per credere.
Tutti credono nei vincitori! Tutti, anche solo per non passare per invidiosi, fanno i complimenti.
Lui vuole rivedere il crocifisso e vuole vedere i segni nella sua carne. Vuole vedere cosa è costata quella vittoria, quale è stato il prezzo che ha dovuto pagare Gesù stesso e non chi lo ha tradito, catturato, processato, umiliato, percosso e infine ucciso.
Tommaso vuole capire come si possa rimanere vivi dopo tutto questo dolore, dopo tutta questa ingiustizia che normalmente apre la strada alla vendetta, ad altra violenza, ad altro dolore. Mi piace pensare che Tommaso abbia bisogno di chiedere a Gesù come si rimanga in vita dopo che ne hai subite di ogni colore.
Vuole vedere la parte vulnerabile del suo Signore, non la forza, non la potenza, non il vigore, non la ritrovata vitalità. Tutti sanno stare dalla parte di un Dio forte, di un Dio potente che annienta i nemici e li sottomette.Forse Tommaso ha compreso più degli altri il significato della Pasqua, che non è quello di una semplice vittoria, non è quello di un trionfo all’ultimo minuto che ribalta ogni pronostico e ogni attesa.
La Pasqua non è tale se lascia dietro di sé degli sconfitti, se la vittoria di uno ha come prezzo l’umiliazione dell’altro. Vedere il Risorto non significa ritrovare il coraggio di chi ora rialza la testa, ricompone le truppe, rimette mano alla spada e va alla riscossa contro il nemico.Lo scrittore israeliano David Grossman scrive: «È una legge non scritta: chi vuole starmi vicino deve assumersi la responsabilità della mia anima. Perché qualunque idiota può capire come sia facile uccidermi. Uno sguardo ben mirato basterebbe. Sono convinto che da qualche parte, dentro me, c’è un punto vulnerabile che chiunque, anche uno sconosciuto, può vedere e colpire. Eliminarmi con una parola».
Nel mattino di Pasqua non ci sono nemici e, se ci sono, il Vangelo impone di amarli, non di combatterli.
In guerra c’è sempre un vincitore e un vinto e anche quando si arriva a fare la pace c’è un più forte che prevale e un più debole che deve cedere. Nell’amore non è così: chi è il più forte? Chi ama o chi è amato? Chi vince e chi perde?
Nel mattino di Pasqua non ci sono nemici e neppure sconfitti, perché la Resurrezione di Gesù paradossalmente intende liberare anche il carnefice dal peso delle proprie violente azioni, intende riscattare anche Giuda dal peso del proprio tradimento, intende liberare i discepoli dal fardello delle loro infedeltà.
Il vero nemico è ciò che dentro di noi ci impedisce di essere gentili, di essere capaci di perdono e di deporre la sete di vendetta, di rimanere umani anche quando tutto intorno è disumano e bestiale.
Gesù sa, ed è quello che chiede Tommaso, che per liberare il cuore dei discepoli dalla paura e aprirlo alla fede, è molto più efficace questa condivisione delle ferite, che l’esibizione della forza; molto più efficace la testimonianza di come, nonostante le ferite, si possa rimanere vivi, piuttosto che l’ostentazione di una trionfale vittoria. 
Le ferite di Gesù ci parlano di amore e non di potere e per questo sono mostrate come riconoscimento, come lasciapassare per entrare nel cuore dei discepoli. Gesù prima ancora che esporre le proprie ferite a Tommaso, è colui che si è esposto alle ferite, al dolore e al tradimento, proprio per indicare come vera la parola da Lui annunciata: chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. Tocca Tommaso, proprio così ti sarà possibile credere.
Metti le tue mani nelle ferite di Dio, perché le tue mani possano imparare non a ferire, ma ad amare.



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Pasqua 2024

niente finisce in niente

Niente finisce in niente! Potremmo ridire in questa maniera lo straordinario evento per cui noi questa sera siamo qui, lo straordinario evento che sentiamo essere capace di riempire il nostro cuore di gioia, lo straordinario evento che stiamo celebrando in questa notte di Pasqua! In questa notte che a differenza di tutte le altre notti non fa paura, in questa notte in cui celebriamo la grande Veglia Pasquale ci viene annunciato che possiamo non avere paura. L’angelo disse alle donne: «Voi non abbiate paura! 
Veglia è una parola a cui non siamo più tanto abituati. Ci è più famigliare la parola veglione che è la consumazione della festa. Veglia è l’attesa della festa.
Eppure, dovrebbe essere una parola cara a noi cristiani perché il vangelo ci raccomanda spesso di vegliare: Vegliate e pregate per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole.
Non è semplicemente un invito a stare svegli! Svegli si può stare perché magari non si riesce a prendere sonno a causa di pensieri difficili e tormentati, di preoccupazioni di cui non si riesce a venire a capo durante il giorno, di timori che si affollano confusi nella nostra testa, rendendo difficile il riposo. 
È l’invito a rimanere svegli, desti come coloro che vivono aspettando! Come coloro che l’amore rende pronti!
Questa sera la liturgia della Parola ci ha fatto meditare alcune delle grandi veglie della storia dell’uomo che la Scrittura ha raccolto nelle sue pagine come momenti sacri.
Nella prima lettura abbiamo ascoltato la prima grande veglia che ha dato inizio alla storia degli uomini: In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque Dio disse: «Sia la luce!».La prima veglia che vede coinvolto il cielo e la terra al termine della quale è donata la luce! La grande veglia di creazione: la prima alba della storia mentre lo Spirito di Dio danza sulle acque e tutto prende vita!
La grande veglia di Abramo che attraversa la prova più difficile. L’attesa di un segno di grazia Dio che rassicuri il suo cuore di padre e che gli faccia ritrovare quello che sembra essere perduto!
La veglia di liberazione del popolo di Israele che riceve indicazioni precise per l’attesa: procuratevi un agnello e cominciate a sperare e desiderare la fine della schiavitù d’Egitto! Nemmeno l’esercito del Faraone sarà in grado di interrompere quella veglia.
Ancora, se fate scorrere con calma le letture, potrete scoprire le tracce di attesa che sono raccontate.
L’attesa di un’abbondanza di bene che rassicuri sul fatto che Dio ha concesso benedizione al suo popolo: ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti. Io stabilirò per voi un’alleanza eterna! 
La veglia e l’attesa di un perdono che guarisca a risani le ferite! Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve
Ma queste non sono le uniche veglie! Ci sono poi, non meno importanti quelle che la Scrittura non racconta, ma che stanno nel nostro cuore.
Quelle veglie, quelle attese che anche per noi sono di vita, di speranza, di benedizione, di un perdono, di termine di una prova, di un dolore, di una lontananza, di un pianto, di una guarigione, di una fatica, di una stanchezza! L’attesa di una pace che per quanto preghiamo e speriamo non arriva.
In ciascuna di queste veglie oggi noi possiamo sentirci meno soli e meno abbattuti.
La Pasqua è la risposta di Dio al cuore dell’uomo che veglia, che attende, che sfida la notte, rimanendo in attesa dell’alba, senza lasciare che la paura vinca il suo cuore, senza lasciare che la disperazione gli faccia perdere il sonno, senza perdere la fiducia.
Questa è la sera buona per chiedere a Dio di colmare la nostra attesa, di farci arrivare ancora pronti a vedere il termine della nostra veglia.
Di darci la speranza di attendere e resistere tutto il tempo che serve per vedere la nostra resurrezione. Un angelo del Signore, infatti, sceso dal cielo, si avvicinò, rotolò la pietra e si pose a sedere su di essa. Il suo aspetto era come folgore e il suo vestito bianco come neve.
Il Padre che ha fatto di questa notte una notte di vita, di speranza e di resurrezione ci verrà incontro anche nella nostra notte, prendendoci per mano. Non abbiate paura della notte perché nella notte Dio è all’opera. Anche nella notte, c’è qualcuno che mi ama talmente da farmi sentire pieno di vita persino nella debolezza.
Ricordatevi di questa Veglia dentro le notti della vostra vita! Questa resurrezione che oggi celebriamo entrerà allora prepotente dentro la nostra vita quotidiana! Vedremo rinascere una speranza: dove le tenebre ricoprono l’abisso come prima della creazione, lo spirito di Dio ancora è capace di danzare e di dire: sia la luce.Dove tutto fa pensare che dovremo sacrificare ciò che abbiamo di più caro, il Signore provvederà! Dio non si è dimenticato di noi. Dio si ricorda. Anche nella notte Dio vede e si fa vedere!
Voi non abbiate paura: dice l’angelo! Anche la nostra notte avrà un termine. Anche il nostro vegliare conoscerà un’alba nuova. Possiamo vivere ancora: Gesù ci precede sulle strade della vita. So che cercate Gesù, il crocifisso. Non è qui. È risorto.
Niente finisce in niente

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Venerdì santo

Io li guarirò dalla loro infedeltà, li amerò profondamente

Il racconto della Passione è ricominciato da dove l’avevamo interrotto. Ricominciamo anche Dave eravamo rimarti: tu l’hai detto. Sì – lascia intendere Gesù a Giuda – sei tu che tradirai. Sei capace di riconoscerlo. Non far finta di nulla, non fare l’offeso, non fare l’ingenuo. Non ti nascondere. Non è tutta colpa tua. Gesù non è morto in croce solo perché tu lo hai preferito a 30 denari. Siamo tutti complici. Forse più furbi e nascosti, forse meno sfacciati e anche meno coraggiosi, ma siamo tutti complici in qualche misura. Riascoltiamo di nuovo le parole di papa Francesco: Guardiamoci dentro. Se siamo sinceri con noi stessi, vedremo le nostre infedeltà. Quante falsità, ipocrisie e doppiezze! Quante buone intenzioni tradite! Quante promesse non mantenute! Quanti propositi lasciati svanire! Il Signore conosce il nostro cuore meglio di noi, sa quanto siamo deboli e incostanti, quante volte cadiamo, quanta fatica facciamo a rialzarci e quant’è difficile guarire certe ferite. E che cosa ha fatto per venirci incontro, per servirci? Quello che aveva detto per mezzo del profeta: «Io li guarirò dalla loro infedeltà, li amerò profondamente» (Os 14,5). Ci ha guariti prendendo su di sé le nostre infedeltà, togliendoci i nostri tradimenti. Così che noi, anziché scoraggiarci per la paura di non farcela, possiamo alzare lo sguardo verso il Crocifisso, ricevere il suo abbraccio e dire: “Ecco, la mia infedeltà è lì, l’hai presa Tu, Gesù. Mi apri le braccia, mi servi col tuo amore, continui a sostenermi… Allora vado avanti!”.
Di questo abbiamo bisogno. Di andare avanti. Nonostante sia molto comprensibile scoraggiarci. Ancora prima, è un attimo cadere nello sconforto dei nostri limiti.
È facile spaventarci per le conseguenze dei nostri errori.
È quello che è accaduto a Giuda. Ieri lo abbiamo sentito nel racconto della passione domandare in maniera quasi spudorata e imbarazzante: sono forse io? Incapace di riconoscersi nei panni del traditore, Giuda è forse perfino incapace di riconoscere se stesso. Sono davvero io quello che ha fatto questo? Sono davvero io quello che è arrivato fino a questo punto? Quando te lo domandi così, il dolore e la vergogna possono diventare insostenibili. Oggi lo ritroviamo nei panni del pentito: Giuda – colui che lo tradì –, vedendo che Gesù era stato condannato, preso dal rimorso, riportò le trenta monete d’argento ai capi dei sacerdoti e agli anziani, dicendo: «Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente».Capita che il peso dei nostri errori dopo essere finito sulle spalle degli altri, finisca sulle nostre; che il rimorso riempia di amarezza il cuore e la vita intera.
Non è sempre facile e non sempre possibile tornare indietro. Occorre, come dice papa Francesco, andare avanti. Quando finalmente e dolorosamente scopriamo e comprendiamo di non essere sempre all’altezza di ciò che la vita chiede e di non essere che l’ombra di quello che vogliamo essere, fa male ammetterlo, ma l’unica via di uscita possibile è arrendersi ad un perdono che non possiamo mai darci, ma possiamo sempre chiedere.
Occorre che qualcuno ti rimanga accanto e che non capiti, come a Giuda, di ritrovarsi soli dopo che gli altri ti hanno detto: «A noi che importa? Pensaci tu!».Ti sei cacciato nei guai? Te l’avevo detto. Hai sbagliato? Dovevi pensarci prima.
Occorre stare davanti a quel Dio che oggi sta con le braccia spalancate sulla croce, occorre alzare lo sguardo verso il Crocifisso per chiedere a lui di trasformare ogni rimorso in perdono che restituisce pace. Qualsiasi sia il nostro sbaglio e il nostro tradimento, qualsiasi sia il rimorso che ci punge il cuore, lo sbaglio sempre più grande è quello di credere che nessuno – neppure Dio – potrà perdonarci.
Il gesto liturgico e rituale anche forse tradizionale del Venerdì Santo è il bacio a Gesù crocifisso. Siamo invitati a farlo al termine di questa celebrazione.
Per compiere questo gesto abbiamo bisogno di raccogliere davanti a Lui la nostra storia, la nostra vita e la nostra fede; le nostre ferite, i nostri dolori, i nostri dispiaceri e le nostre rabbie, insieme ai nostri desideri migliori e alle nostre speranze; al nostro desiderio di bene e di pace.  Rimaniamo sotto la croce con tutto questo. Come ci ha insegnato il cardinal Martini: l’esperienza realistica della vita ci dice che il dolore, la sofferenza, la morte riempiono di sé la nostra storia. Gesù non ha inventato la croce: l’ha trovata anche lui sul proprio cammino, come ogni uomo. La novità che egli ha inventato è stata quella di mettere nella croce un germe di amore.
Amico per questo sei qui: per quel bacio.
Sappiamo di non essere affidabili, neppure nell’amore, per questo confidiamo nell’amore di Dio.

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Giovedì santo

Sono forse io?

«Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora».
Così Gesù aveva risposto a Maria nelle sale del banchetto organizzato a Cana per uno sposalizio. Nonostante non fosse ancora giunta l’ora, Maria aveva regalato il consiglio prezioso ad ogni discepolo: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela».
Quell’ora è arrivata. Nel cenacolo, adesso è Gesù, dopo essersi chinato sui discepoli per lavare loro i piedi, a dire qualcosa di simile: Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi. 
In quest’ora l’obbedienza non è dovuta alle parole, non è data ad un comando. L’obbedienza è consegnata ai gesti stessi di Gesù, l’obbedienza è a quello che ha fatto e farà e non solo a quello che ha detto.
L’obbedienza da quell’ora di quel giorno in poi non è data ad un comandamento, ma al primo e unico dei comandamenti, quello a cui anche Gesù obbedisce: il comandamento dell’amore.
Da quell’ora di quel giorno l’obbedienza è e sarà verso all’amore.
Ogni ora sarà vera solo se vissuta nell’amore.
Ogni gesto sarà buono, ogni parola sarà giusta, così come ogni silenzio solo se obbediscono all’amore.
Colpisce nel racconto della passione il fatto che più volte Gesù si rivolgerà al suo interlocutore dicendo: tu l’hai detto.
A Giuda che domanda: sono forse io il traditore? Tu l’hai detto.
Al sommo sacerdote che gli dice: “Ti scongiuro, per il Dio vivente, di dirci se sei tu il Cristo, il Figlio di Dio”. Tu l’hai detto.
A Pilato che gli domanda: dunque tu sei re?Tu lo dici.
Sta a te decidere, Giuda, se vuoi essere il traditore.
Sta a te, sommo sacerdote, decidere se Gesù è il Messia.
Sta a te, Pilato, decidere se Gesù è innocente.
In quest’ora, Gesù chiede conto delle parole e delle promesse mentre si prepara a mantenere la parola e la promessa che ha fatto nel cenacolo: «Prendete e mangiate; questo è il mio corpo». Poi prese il calice e, dopo aver reso grazie, lo diede loro, dicendo: «Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati. 
Chiede conto dei propositi ai quali a volte noi stessi obbediamo.
In quest’ora Gesù dice a ciascuno di noi: sta a te decidere.
Sta a te decidere se quello che dici è parola seria o parola vuota.
Se la tua fede è qualcosa su cui sei pronto a scommettere o è solo abitudine.
Se il bene che dici di volere è qualcosa per cui sei disposto a spenderti oppure è semplicemente un modo di dire.
Davanti ad un mondo che incolpa sempre gli altri, che fugge le proprie responsabilità, Gesù ci tratta da adulti, ci obbliga a stare davanti alle nostre scelte senza scappare. 
Non è colpa sempre degli altri se nella mia vita alcune cose vanno male; se qualcuno ce l’ha con me; neppure è sempre colpa degli altri se talvolta sono infelice.
In quest’ora non c’è spazio per domande come quelle di Guida, che dopo aver già concordato il prezzo del tradimento, chiede a Gesù: sono forse io?
Come hai detto quelle parole? Con l’aria ingenua di chi davvero crede di non essere lui? 
Con la voce preoccupata di chi tema di essere stato scoperto?
Con quel fare un po’ scandalizzato o offeso di chi lascia intendere: come ti permetti a pensare male di me? Adesso sarei io il cattivo?
Con l’aria infastidita di chi pensa: cosa me lo chiedi a fare? Tanto sai sempre tutto?
Questa è l’ora della verità: per Dio, per Giuda e anche per noi stessi!
Arriva un tempo nella vita in cui i sotterfugi, i pretesti e le scuse non reggono, crollano e si mettono allo scoperto; un tempo in cui qualcuno di ricorda: tu l’hai detto!
Mentre noi rimaniamo prigionieri dei nostri pretesti e indugi, mentre noi ci chiediamo: “chi sono? sono forse io?”, in quest’ora Gesù è straordinariamente libero per quanto sia catturato e imprigionato; incredibilmente libero perfino su quella croce dove non può muovere un dito.
In quest’ora ci lascia e restiamo straordinariamente liberi. 
Liberi di fare Pasqua o di fare altro.
Liberi di tradire e di rinnegare.
Ma se sceglieremo di stare davanti a Gesù, egli ci chiederà conto di quel che abbiamo detto, di quello che abbiamo taciuto, di quello che abbiamo fatto o non fatto.
Non si può far finta di nulla, come a volte facciamo anche con noi stessi.
Concludo con le parole di papa Francesco: 
Guardiamoci dentro. Se siamo sinceri con noi stessi, vedremo le nostre infedeltà. Quante falsità, ipocrisie e doppiezze! Quante buone intenzioni tradite! Quante promesse non mantenute! Quanti propositi lasciati svanire! Il Signore conosce il nostro cuore meglio di noi, sa quanto siamo deboli e incostanti, quante volte cadiamo, quanta fatica facciamo a rialzarci e quant’è difficile guarire certe ferite. E che cosa ha fatto per venirci incontro, per servirci? Quello che aveva detto per mezzo del profeta: «Io li guarirò dalla loro infedeltà, li amerò profondamente» (Os 14,5). Ci ha guariti prendendo su di sé le nostre infedeltà, togliendoci i nostri tradimenti. Così che noi, anziché scoraggiarci per la paura di non farcela, possiamo alzare lo sguardo verso il Crocifisso, ricevere il suo abbraccio e dire: “Ecco, la mia infedeltà è lì, l’hai presa Tu, Gesù. Mi apri le braccia, mi servi col tuo amore, continui a sostenermi… Allora vado avanti!”.

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Domenica delle palme

abbiamo bisogno di pane, ma anche di rose

Sono due i vangeli di questa domenica perché sono due i luoghi in cui la liturgia ambrosiana della Domenica delle Palme ci conduce. Il primo luogo è la casa di Betania, la casa di Marta, Maria e Lazzaro dove Gesù si reca sei giorni prima della Pasqua dei giudei. Molti lo cercano, per diversi motivi. Alcuni per semplice curiosità: «Che ve ne pare? Non verrà alla festa?». Altri per dichiarata ostilità: avevano dato ordine che chiunque sapesse dove si trovava lo denunciasse, perché potessero arrestarlo.
Altri per gratitudine: Gesù andò a Betània, dove si trovava Lazzaro, che egli aveva risuscitato dai morti. E qui fecero per lui una cena. I motivi per cercare Gesù sono diversi per ciascuno, ma soprattutto sono e devono essere personali. In quella casa accade qualcosa di molto personale: Maria allora prese trecento grammi di profumo di puro nardo, assai prezioso, ne cosparse i piedi di Gesù, poi li asciugò con i suoi capelli.
Aggiunge Giovanni: tutta la casa si riempì dell’aroma di quel profumo.
Questa informazione potrebbe apparire inutile, ma come dice in un brevissimo commento il cardinale José Tolentino Mendonça (“Avvenire” del 21 ottobre 2020), questa notazione chiede di essere custodita nel cuore. “Quel profumo ci parla dei piccoli gesti d’amore senza i quali noi non siamo; ci racconta che Dio sa che abbiamo bisogno di pane, ma anche di rose”. Il secondo luogo in cui la liturgia intende condurci è in mezzo a quella grande folla che era venuta per la festa e, udito che Gesù veniva a Gerusalemme, prese dei rami di palme e uscì incontro a lui gridando: «Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele!».In quella folla è difficile capire cosa stia davvero accadendo.
Il fatto che tutti facciano la stessa cosa e gridino le stesse parole non è garanzia sufficiente per capire. Per stare in una folla non sono necessarie particolari motivazioni personali. Ti sembra di essere nel posto giusto solo perché attorno ci sono tante altre persone e non ha molta importanza sapere il perché sei lì. Non è necessario avere un pensiero o un desiderio: ti viene dato in prestito per il solo fatto di essere lì in mezzo a tutti; se non hai le parole giuste anche quelle ti vengono prestate; sia parole che pensieri, proprio perché in prestito, puoi sempre restituirle o scambiarle per altre. 
Accadrà esattamente così a questa folla, forse non esattamente la stessa, ma buona parte possiamo pensare di sì. Alla domanda «Di questi due, chi volete che io rimetta in libertà per voi?». Quelli risposero: «Barabba!». Alla richiesta: «Ma allora, che farò di Gesù, chiamato Cristo?». Tutti risposero: «Sia crocifisso!». E quando Pilato domanda: «Ma che male ha fatto?». Essi allora gridavano più forte: «Sia crocifisso!».
La folla fa da cornice costantemente alla vita di Gesù. Guardi a quella folla e vedi noi, con i nostri slanci e i nostri limiti, capaci di grandi azioni, come pecorelle del buon pastore, ma capaci anche di cose mediocri, pecoroni di un gregge in mano a mercenari. 
Non abbiamo bisogno solo di pane, abbiamo bisogno anche di rose.
Nella casa di Betania non tutti lo hanno capito e forse nemmeno noi. Non lo ha capito Giuda, che alla vista del gesto di Maria subito esclama con tono di rimprovero «Perché non si è venduto questo profumo per trecento denari e non si sono dati ai poveri?»Abbiamo anche bisogno di un pensiero e un desiderio personale che sostenga e dia sostanza alla nostra fede. Non lo aveva più nel cuore Giuda e forse a volte anche noi lo abbiamo smarrito, che senza accorgerci mettiamo un prezzo.
Stare in mezzo alla folla a volte aiuta perché incoraggia, ma a volte è proprio nella folla che ci si perde. Si perde se stessi. Si perde quell’intimità che occorre all’amicizia e alla confidenza.
Siamo invitati a passare da Betania e poi entrare con Gesù a Gerusalemme per poi seguirlo dentro questa settimana santa. Questi giorni, se si intende viverli profondamente, avranno bisogno di solitudine in cui Dio possa incontrarci; hanno bisogno di un certo distacco dalle necessità e dai bisogni quotidiani per ritrovare la gratuità e la forza dei desideri del cuore. Hanno bisogno di silenzio, a volte più intenso delle parole. Hanno bisogno di preghiera, molto più efficace di ogni azione, senza inciampare in pigrizie o nelle solite giustificazioni.

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5 domenica di quaresima

fate molta attenzione al vostro modo di vivere,
comportandovi non da stolti ma da saggi, facendo buon uso del tempo

Le parole non sono solo qualcosa che utilizziamo per parlare e comunicare. Sono innanzitutto ciò che noi usiamo per pensare, per capire il mondo fuori e soprattutto il mondo dentro; per dare un nome ai nostri sentimenti, alla nostra gioia e al nostro dolore. Per questo motivo a volte trovo utile andare sul dizionario e leggere le definizioni delle parole che attirano la mia attenzione.
La parola che sono andato a cercare dopo aver letto questo vangelo è un verbo: risorgere. Sul dizionario si legge: tornare in vita; ma si fa riferimento anche all’improvviso e rapido e ritorno in salute di chi è stato malato, o al miglioramento inaspettato del proprio stato d’animo o anche della propria situazione economica. Si fa riferimento anche al tornare allo stato e ad una condizione precedente.
Così mi è tornato in mente la trama di un film: È già domani, con Antonio Albanese, attore protagonista nei panni di Filippo, un giornalista televisivo, autore di documentari sulla natura, con un pessimo carattere e che di fatto disprezza il proprio lavoro. Filippo si deve recare per due giorni in una piccola isola delle Canarie per realizzare un reportage su un raro stormo di cicogne. Partito e arrivato malvolentieri sull’isola, dopo avere effettuato il servizio, non riesce a prendere il traghetto di ritorno a causa di una mareggiata ed è costretto a fermarsi sull’isola per una seconda notte.  La mattina al risveglio si accorge che tutto ciò che aveva vissuto il giorno prima, ieri, si sta ripetendo. Si ritrova così a rivivere ogni mattina. I giorni si ripetono, uguali. Non sapendo cosa fare, si rassegna all’idea di doversi svegliare ogni mattina dentro lo stesso giorno, accorgendosi che qualsiasi cosa faccia, il giorno dopo ogni conseguenza è cancellata.
Così un giorno mangia senza misura. Un giorno spende senza misura. Un giorno diventa cattivo con tutti. Un giorno decide di ammazzare le cicogne. Poi prova a conquistare le donne dell’isola… ma le trova poi tutte noiose. Un giorno decide di togliersi la vita. Tanto il giorno dopo, risorge! Proprio perché sa cosa succede durante il giorno, ad un certo punto tenta di approfittarsene. Se ne approfitta per rendersi simpatico alle donne, tenta perfino di sfruttare la conoscenza di quel che accade per cercare di impedire la morte di un anziano signore che ogni mattina incrocia fuori dall’albergo.
Non vi dico come finisce, ma ricordare questa trama forse ci aiuta a pensare che risorgere non è solo tornare allo stato e alle condizioni di prima, forse non è neppure solo ritrovare la vita dopo la morte.
L’eterno ritorno dello stesso giorno si interrompe nel film, quando comincia a credere in qualcosa e soprattutto in qualcuno, quando inizia a guardare con altri occhi il mondo che ripetutamente lo circonda e tutto ciò che gli capita attorno. Risorgere è forse imparare a rialzarsi, ma soprattutto accettare di cambiare.
La resurrezione di Lazzaro non è un essere portati indietro, ma la possibilità di andare avanti. È la possibilità di non ripetere all’infinito gli stessi errori, di rifare gli stessi sbagli che rendono i giorni tutti uguali.
San Paolo così raccomanda agli Efesini e a tutti noi: fate molta attenzione al vostro modo di vivere, comportandovi non da stolti ma da saggi, facendo buon uso del tempo.
Gesù così ricorda alle due sorelle di Betania: chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?
Credere che il nostro destino non è già disegnato e neppure segnato.
Credere che le cose possono cambiare se noi accettiamo di cambiare con loro.
Credere che anche dopo un sacco di errori ripetuti, vi è una nuova possibilità non solo di riprovarci ma anche di sperare. Credere perché Dio è con noi.
Nel racconto di Giovanni alla resurrezione di Lazzaro sono dedicate poche parole.  Molta più attenzione è data al racconto del dialogo tra Gesù e le due sorelle. È Gesù stesso che ci indica il perchè: Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate.
Affinchè voi crediate! Il vero miracolo è proprio quel tornare a credere perché i nostri giorni non siano una annoiata, stanca e scoraggiata ripetizione.

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4 domenica di quaresima

egli disse: «Credo, Signore!»

Sono tante le occasioni in cui possiamo pensare che la vita sia ingiusta.  Lo avranno pensato anche i genitori del cieco nato quando si sono accorti che il proprio figlio aveva davanti un duro destino da cieco. Lo avrà pensato il cieco stesso, quando ha cominciato a comprendere che a lui non era stato concesso il dono della vista, come quasi a tutti.
Qualcuno a volte tenta di giustificare questo tipo di situazioni immaginando che da qualche parte si nasconda un colpevole, che le cose non accadano così a caso: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?».
Non sappiamo quanti anni avesse quest’uomo, possiamo però immaginare che, in qualche modo, preso consapevolezza della sua situazione, se anche non se ne era fatta una ragione, almeno si era fatto una vita: anche solo da mendicante – «Non è lui quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?» ci chiede la gente – ma pur sempre la sua vita.
Siamo capaci di abituarci a tutto, a volte perfino a rassegnarci. Il rischio è quello poi di non saper cogliere la possibilità di riscattare un destino diverso, per cogliere un’occasione non cercata, un’opportunità non prevista e neppure prevedibile. Sogni quelle possibilità, le immagini, ma poi arrivano e non sei davvero pronto.
Perché ogni occasione comporta una scelta, un lasciare qualcosa che magari non è il meglio, ma è il certo, è la sicurezza, è l’abitudine. Perché non è sempre facile e scontato riconoscerle. Un proverbio popolare così mette in guardia e scoraggia da eccessivi entusiasmi: chi lascia la strada vecchia per la nuova sa quel che lascia e non sa quel che trova.
Questo rischio lo evita direi abilmente il cieco nato.
L’occasione arriva, non è prevista, non è cercata. È suo malgrado coinvolto in una discussione.Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio.L’occasione non è neppure elegante: sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco. Difficile capire che è un’occasione e non l’ennesima umiliazione. Non è neppure immediata e a buon mercato: adesso «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe».
Ma non tutti ci stanno. Ora il difficile è convincere tutti che qualcosa è accaduto, che il miracolo è arrivato, che la sorte è cambiata; che la vita non ha solo sberle da dare, ma qualche volta ha in serbo anche carezze; che anche se un altro proverbio scoraggia dal fidarsi – fidarsi è bene, non fidarsi è meglio – ci sono momenti in cui fidarsi non una possibilità, ma l’unica possibilità: ragionevole e sensata.
Fanno resistenza tutti quelli lo conoscevano – i vicini e quelli che lo avevano visto prima.Fa amaramente sorridere la loro testardaggine, il loro non voler cedere perfino all’evidenza, l’incapacità a credere a quello che vedono, loro che non sono ciechi.Alcuni dicevano: «È lui»; altri dicevano: «No, ma è uno che gli assomiglia». Pare perfino inutile il suo gridare: «Sono io!».
Fanno resistenza i farisei: Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia.Ammettere di aver sbagliato a volte è difficile perché fa crollare un castello intero e non solo qualche mattone. E occorre poi ricostruire con umiltà e fatica.
Fanno resistenza anche i genitori: capiscono che in gioco c’è anche la loro vita, le loro abitudini: “Chiedetelo a lui”. Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei.
A volte la risposta che diamo alla durezza della vita è il cinismo: diventiamo insensibili, mettiamo in conto la facile disponibilità a farci complici silenziosi di qualsiasi cosa a qualunque prezzo.  Tu non disturbare me, che io non disturbo te. Riconosciamo che ogni cosa ha un prezzo, ma non si dà più valore a nulla. Vi è questa resistenza alla fede che a volte si annida anche in noi. Siamo fatti per la gioia, tuttavia la tentazione è spesso quella di chiuderci, di sopportare anche la tristezza pur di non rischiare, travolti dal “qui e ora” delle preoccupazioni del momento. Possibile che a nessuno venga in mente di fare una festa e di gioire per la vista ritrovata di quell’uomo? Anche questo costa così tanta fatica?
Abbiamo questa resistenza a credere e fatichiamo a capire che la fede è resistenza!
È la capacità di attendere anche quando sembra che nulla cambi, che i giorni passino senza una svolta, senza una sorpresa, senza una gioia.
La fede non è sapere tutte le risposte, piuttosto è il modo di rimanere davanti alle domande che non hanno ancora risposta e non sentirsi persi.
Fede è la capacità del cieco nato di fare una sola domanda e di fidarsi della prima risposta: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». Ed egli disse: «Credo, Signore!».

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3 domenica di quaresima

lo schiavo non resta per sempre nella casa; il figlio vi resta per sempre

— C’era una volta…. — Un re! — diranno subito i miei piccoli lettori. 
— No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno.
Non so quanti di voi hanno letto dall’inizio alla fine il libro Pinocchio o almeno hanno visto il film. Spero che tutti conosciate almeno per sommi capi la favola di questo burattino e dei suoi compagni di avventura: Geppetto, il grillo parlante, Mangiafuoco, il gatto e la volpe, la fatina, Lucignolo, il pescecane…
La favola di un burattino che ama e insegue la sua libertà e nel cercarla rischia di perdere più volte perfino la vita. Una storia di libertà e di bugie; una storia di buoni propositi e illusioni; di promesse e di delusioni; di progetti e di inganni; di buone intenzioni e di pessimi risultati. Il paese dei balocchi, il campo dei miracoli, il teatro dei burattini… dietro ogni angolo c’è l’occasione – che Pinocchio regolarmente coglie – di fare la cosa sbagliata con una leggerezza che diventa irritante che, capitolo dopo capitolo, accresce l’antipatia verso questo burattino presuntuoso sempre pronto a scaricare su altri la responsabilità di quanto gli accade. Basta sempre un niente per distoglierlo dai suoi buoni propositi: un incontro, una musica, un invito, una distrazione…
C’era una volta un pezzo di legno che oggi mi pare possa aiutarci a comprendere questo vangelo così complicato.
Come non ritrovare infatti una profonda sintonia tra le parole di Gesù e questa favola di Collodi. Nei panni di Pinocchio, possiamo certo ben immaginare questi Giudei che discutono con Gesù, così gelosi della loro libertà, così sicuri della loro verità, così offesi e innervositi dalla parola di Gesù che la memoria torna al capitolo IV e al martello che Pinocchio scaglia contro il Grillo parlante che lo aveva messo in guardia: “Guai a quei ragazzi che si ribellano ai loro genitori e che abbandonano capricciosamente la casa paterna. Non avranno mai bene in questo mondo; e prima o poi dovranno pentirsene amaramente.
«Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». Gli risposero: «Noi siamo discendenti di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi dire: “Diventerete liberi”?».Voi cercate di uccidermi perché la mia parola non trova accoglienza in voi. I richiami sono molti.
La storia di Pinocchio, come questo racconto evangelico, mette a nudo le nostre debolezze, le nostre finzioni, le nostre piccole e grandi bugie con cui cerchiamo di ritagliarci e aggiustarci scelte e regole su misura non del bene, ma del comodo. 
Ci mettono di fronte alle severe parole di Gesù: «Se foste figli di Abramo, fareste le opere di Abramo. 
Ci mettono di fronte alla facile tentazione delle delega, del credere alla promessa facile, dell’illusione che qualcuno ci tirerà fuori dai guai e nel frattempo noi proveremo ad arrangiarci in qualche maniera, meglio ancora se furba e scaltra, in attesa di quel qualcuno. La tentazione di un salvatore che allontani ogni pericolo e ogni nemico, che ci esenti da ogni fatica e da ogni impegno, da ogni sacrificio e da ogni responsabilità, che decida per noi in modo da poter poi avere qualcuno da incolpare se le cose vanno male… Che ci permetta di fare la parte della vittima e di trovare sempre un nemico con cui prendercela…
Uno dei primi guai che Pinocchio combina è di vendere l’abbecedario, il libro delle parole.
Non potete dare ascolto alla mia parola. Voi non ascoltate.
Per due volte i Giudei vengono ripresi con queste parole.
Pinocchio è uno che non ascolta. E quando ascolta, poi fa quello che vuole. Oppure peggio, ascolta e si fida delle persone sbagliate. Regole, paletti, limiti e confini non gli vanno a genio. Regolarmente anche se inconsapevolmente li abbatte, cacciandosi continuamente nei guai e creando danni. Il suo pentimento dura sempre troppo poco.
L’uomo, noi, corriamo questo stesso rischio da cui Gesù mette in guardia: Se uno osserva la mia parola… Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi».
Pinocchio è una fiaba, scritta forse anche un po’ di malavoglia da Carlo Lorenzini, che preferisce però rimanere nell’ombra e firmarsi “Collodi”; scritta per un giornale di bambini, a puntate irregolari e interrotto due volte, ma è la nostra storia; è la storia dell’avventura di diventare e rimanere uomini. Travestita da fiaba c’è quel segreto tanto difficile da digerire per i giudei di allora come ci dice il Vangelo e per tutti i bambini del mondo e per il bambino che rimane in noi: la libertà è impegnativa e ha bisogno ogni volta di essere guidata.
«Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi».Nella storia di Pinocchio c’è sempre una voce che in ogni guaio lo guida, quando si decide ad ascoltarla diventa un bambino in carne e ossa.  C’è sempre anche nella nostra storia una Parola del Signore che ci guida e rischiara il cammino. Occorre ascoltarla e rimanere in quella Parola. Bellissimo questo rimanere. Il Signore sa che non sempre ci viene facile metterla in pratica, come non è stata facile per Pinocchio. Ci dice rimanete voi nella Parola. È qualcosa di diverso dal tienila dentro: dentro ci sono tante altre voci che ci confondono. Stai tu nella Parola, stacci dentro e imparerai la verità e conoscerai la libertà.

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